L’Aquila, anno I D.T. (dopo terremoto)
(di Giusi Pitari) – No, no, no! Via, via via! Un anno, già un anno, solo un anno. Come in un rewind rivedo tutto, risento tutto, rivedo i visi, le immagini, di chi non c’è più. Uno alla volta. E ancora una volta dopo un anno mi dico: io ci sono. Ci sono ancora. A vivere una vita diversa, una vita difficile, una vita senza più quelle persone. Una vita senza la città, i borghi, le abitudini, la bellezza.
A ripercorrere tutto quanto si è vissuto in questi 365 giorni, ci si confonde. Si accavallano giorni, serate, lacrime e paura.
L’urlo e le urla. Le troppe vittime.
Le notti insonni, il silenzio, il buio; senza compagnia, se non le persone che hai voluto strette a te: la famiglia.
Le tende, i set cinematografici. Via XX Settembre. Campo di Fossa. Via D’Annunzio. Onna. Sant’Eusanio. Tempera…
La strada del G8. Il sibilo del Predator.
Chi non ce l’ha fatta ed è morto di crepacuore: tanti, troppi.
Chi ci ha aiutato, davvero.
Ora a distanza di un anno ci sentiamo come dei sopravvissuti. Come se un’epidemia fosse passata sul nostro territorio e avesse ucciso e distrutto. Un’epidemia che ci ha tolto i nostri cari, giovani, bambini, anziani. Un’epidemia che ci ha costretto ad una “quarantena” lunghissima, dividendoci, più di quanto già non fossimo. Un’epidemia che ci ha tolto la partecipazione, che ci ha resi dipendenti, da tutto.
Ricordo come se fosse ieri quando, l’estate scorsa, di sera, giravo in automobile in cerca di qualcuno. E tutti quei palazzi al buio, che ne nascondeva anche le crepe, si stagliavano alti e vuoti e sembravano dire: chi tornerà mai qui? Qui, dove non dovevamo essere costruiti.
E ancora, da lontano, il centro: buio. Qualche notte la luna disegnava i contorni nuovi di cupole e campanili morsicati e sorretti da tutori.
Oggi sono ancora vuoti i palazzi delle periferie, il centro abbandonato.
Giorni fa sono entrata a Palazzo Carli e, come mi capita spesso, in un attimo che sembrava non finire mai, mi è scorsa nella mente tutta la mia vita. Quando salivo le scale di quel palazzo da studente fuori sede; anni dopo le salii per firmare il mio contratto di lavoro e dopo ancora, la fine marzo del 2009, quando le risalii per l’ultima volta. Scale piene di studenti, strade piene di studenti, case piene di studenti, locali pieni di studenti, cinema pieni di studenti, teatri pieni di studenti.
Il silenzio ancora viene in mente, di tanta gente incredula con una fiammella di dolore e speranza: era il 6 di luglio 2009.
Il silenzio delle case, delle vie, e anche dei nuovi quartieri.
E poi i rumori di migliaia di camion; tanta gente nuova, che prendeva in consegna la città per costruire nuovi luoghi, lontani e perfetti. Senza anima.
E ancora il rumore degli elicotteri, tuttora padroni del nostro cielo.
E poi l’incontro col centro storico martoriato. Quel pezzetto di anima regalatoci e mai allargato. Le transenne, pesanti come pietre.
Le assemblee cittadine, gli aperitivi autogestiti del giovedì sera in Piazza Duomo, le manifestazioni, vani tentativi di essere ancora una comunità.
E poi il web, la nostra piazza: qui camper, a voi tendopoli. Qui Cese a voi Paganica. Qui Coppito, a voi Pineto.
Il Capodanno: migliaia di persone al Piazzale di Collemaggio, con un tempo infame, insieme senza alcun perché.
Dopo un anno i sopravvissuti si trovano a dover curare ciò che è ancora in vita, anche se malato, gravemente malato: la città, i monumenti, gli antichi borghi, il lavoro, la cultura, la storia, le anime.
Sì, proprio così. Dopo un anno ci sentiamo come dopo un uragano. Che ha scombussolato tutto. E non parlo solo del tremore della terra, ma di tutto ciò che ci ritroviamo e non ritroviamo dopo un anno.
Un lavorio assurdo questi mesi ha fatto pensare, persino a molti di noi, che una volta tornati gli aquilani avrebbero dovuto occuparsi solo di qualcosa. Invece qui c’è tutto da fare, ancora. Le nostre case, i nostri centri storici, il lavoro, il commercio, un progetto vero che comprenda ormai anche tutte le New Town.
Ecco, viviamo tutti in una NO TOWN. Un agglomerato che ci rende altro da quello che dovremmo essere: ancora cittadini. I cittadini vivono in una città e noi invece non l’abbiamo.
Non abbiamo lavoro, non abbiamo piazze, non abbiamo i nostri studenti per le strade, non abbiamo strade, giardini, campi sportivi, vetrine, la nostra storia.
Ci guardano dall’alto, ancora innevati, il Gran Sasso, più in là il Sirente, lontano la Maiella e imperterrito il Monte Cagno.
Le nostre montagne. Cammino e cammino: ancora L’Aquila nella mente. Vedo Paganica, San Gregorio, Castelnuovo e non riesco a rimetterle in piedi, ad immaginare la vita di tutti noi sopravvissuti.
Ma quando ultimamente abbiamo preso ad incontrarci, a Piazza Duomo, scopriamo che viviamo tutti nello stesso modo, che ci capiamo, solo con uno sguardo. La nostra città ci ha chiamato e noi stiamo cercando di rispondere. Con tutte le contraddizioni, vedute diverse, ma con la stessa emozione dentro. Quella che ci ha forzato ad entrare n città, nei paesi, per vederli. E non ci siamo spaventati.
La paura. Che strana la paura. Cambia faccia. Ora ho solo paura di perdere i tanti amici che incontro la domenica, con le carriole. Il resto si farà.
(Nella foto Giusi Pitari, docente a biotecnologie e prorettore dell’Università)
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