L’Aquila, città accogliente e multiculturale da secoli
L’Aquila, città accogliente e multiculturale da secoli
Goffredo Palmerini *
L’Aquila è davvero una città magnifica, con una storia singolare sin dalla fondazione. Nacque infatti nel 1254 con il concorso di 99 Castelli – secondo la tradizione, ma in realtà furono una settantina – di un esteso territorio, ciascuno realizzando il proprio quartiere, con chiesa piazza e fontana. Una città particolare, unica nel Medioevo, nata non per un’aggregazione casuale come le altre ma secondo un disegno armonico che non trova precedenti nella storia dell’architettura urbana europea. Solo tre secoli e mezzo dopo si definisce un caso simile di costruzione d’una nuova città: nel 1703, con la nascita di San Pietroburgo.
La pianta urbana è pressoché sovrapponibile a quella di Gerusalemme: novella “città santa” quasi a marcare la cifra della dimensione spirituale che assumerà. L’impianto urbano è diviso a croce, in quattro “Quarti”, e il reticolo viario è organizzato secondo lo schema romano del cardo e decumano. La città palesa subito una sua forza, nello stretto legame tra i cittadini intus moenia e i cittadini extra, rimasti nei Castelli d’origine, anche nella condivisione della vita civile e politica. Per tre secoli L’Aquila conosce il suo migliore splendore. Gode nel regno di un’autonomia spiccata. Ha privilegi fiscali da marca di confine, batte la sua moneta, ha proprie leggi, intrattiene commerci intensi con l’Europa vendendo lana, zafferano e il panno aquilano. In città s’insediano vere e proprie comunità di finissimi maestri artigiani – impegnati nelle costruzioni di chiese, case e palazzi – e mercanti: francesi, tedeschi, veneziani, fiorentini, lombardi, albanesi, come testimoniano ancor oggi i nomi delle vie del centro storico.
A quarant’anni dalla fondazione, L’Aquila vive un evento epocale per la storia della Chiesa, scossa in quegli anni da gravi turbamenti che Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, nel secolo precedente, avevano fortemente avvertito, vaticinando un’Era dello Spirito ed invocando il ritorno ad una Chiesa lontana dal potere e dalla ricchezza, un’Ecclesia spiritualis. Il 29 agosto 1294 il monaco Pietro Angelerio del Morrone, eletto al soglio pontificio il 5 luglio dal Conclave di Perugia, viene incoronato Papa con il nome di Celestino V nella Basilica di Collemaggio. Giusto un mese dopo l’incoronazione, il Papa istituisce all’Aquila il primo Giubileo della storia della Cristianità, la Perdonanza, per chiunque entrerà nella Basilica di Collemaggio dai vespri del 28 a quelli del 29 agosto di ogni anno, sinceramente pentito e confessato, avendo perdonati tutti i peccati commessi sin dal battesimo. Atto gratuito di riconciliazione con Dio e tra gli uomini che acquista rilevanza rivoluzionaria, come rivoluzionario sarà il gesto delle dimissioni dal papato il 13 dicembre 1294.
Un’aura di santità accompagna l’anziano pontefice tornato umile monaco. L’elevazione agli altari viene invocata già all’indomani della sua morte, il 19 maggio 1296. La proclamazione di santità per Pietro Celestino avviene nel 1313. Ma un altro Santo, un secolo e mezzo dopo, avrà forte rilevanza nella storia dell’Aquila e della Chiesa universale: San Bernardino da Siena. Enorme l’influsso della predicazione e della presenza del francescano senese. L’Aquila vive la riforma del francescanesimo, l’Osservanza, direttamente con il propulsore San Bernardino, e con i suoi confratelli più stretti San Giacomo della Marca e San Giovanni da Capestrano. Grande influenza avranno i francescani nella crescita della città, nella sua evoluzione sociale. Bernardino torna per sua ferma volontà all’Aquila nel 1444, per morirvi il 20 maggio ed esservi finalmente sepolto.
Ci fermiamo qui nel racconto della storia dell’Aquila, avendo parlato della spiritualità penetrata nella memoria collettiva della comunità aquilana: i valori del messaggio celestiniano, che richiamano alla concordia, alla riconciliazione, al perdono, alla pace, e la forte impronta dell’Osservanza francescana, con una schiera di Santi e Beati. Non solo ai Celestini e ai Francescani si deve però questa impronta spirituale aquilana, giacché una straordinaria fioritura di ordini religiosi e congregazioni ha connotato la vita spirituale all’Aquila, dai Benedettini ai Domenicani, dai Cistercensi ai Gerosolimitani, dai Minimi agli Agostiniani, dai Gesuiti ai Filippini, dagli Olivetani ai Barnabiti, tutti importanti nel consolidare lo spirito di accoglienza e di aiuto verso i bisognosi.
Ma la storia dell’Aquila è costellata anche da terribili terremoti, almeno cinque i più distruttivi, nel 1315, 1349, 1461, 1703 (il più grave in perdite di vite umane, 6000 vittime), infine il terremoto del 6 aprile 2009. Da poco L’Aquila ha fatto memoria del terremoto che dieci anni fa la sconvolse. La città sta rinascendo, come sempre ha fatto dopo tutti i terremoti devastanti della sua storia. Sta risorgendo più bella di prima. La ricostruzione della città antica, uno dei centri storici più vasti e preziosi d’Italia, procede. Come in tutte le precedenti ricostruzioni grazie a provetti mastri costruttori e raffinate maestranze artigiane, anche questa volta c’è il concorso di professionalità giunte da ogni dove, dall’Italia e dall’estero, che la stanno restaurando e riedificando con tecniche costruttive antisismiche d’avanguardia.
Molti gli immigrati che lavorano nelle imprese impegnate nella città che risorge, nel cantiere più grande d’Europa. Passando tra i cantieri e le gru erette a L’Aquila, nell’intrico medievale di vie vicoli e “coste”, risuonano tra le mura dei palazzi e sulle impalcature dialetti e inflessioni regionali italiane, ma anche tanti idiomi ed accenti di terre straniere. Sembra una babele, in un brulichìo di uomini e mezzi. Ma in fondo c’è una sorta di gradevole armonia nel vociare fecondo che accompagna la rinascita. Rivive l’antica attitudine dell’Aquila, come nelle quattro ricostruzioni precedenti, ad accogliere genti venute da ogni dove. Genti con culture e provenienze diverse, ma sempre poi integrate nella sua comunità. Nel difficile tempo che viviamo, con epocali migrazioni dall’Africa, dall’Asia e dal Medio Oriente di popolazioni colpite da guerre, persecuzioni etniche e religiose, dittature e carestie, dalla fame e dalle conseguenze dei cambiamenti del clima, in cerca di avvenire nella ricca Europa, un nuovo umanesimo s’impone nelle politiche di accoglienza e di integrazione dei migranti.
Stanno rinascendo stigmi e muri, paure e becere operazioni che le alimentano. La storia dell’umanità e delle sue migrazioni non sembra insegnare nulla alle nostre società, sul bisogno di comprendere prima, e poi di governare, i fenomeni migratori. C’è però chi sa leggere il segno dei tempi, chi sa aprire alla speranza di un umanesimo nuovo, che sa accogliere e integrare. Le loro testimonianze sono il sale della terra, l’antidoto alle paure, la visione di un mondo diverso e possibile, migliore. Il terremoto del 2009 ha esonerato L’Aquila dai programmi di ripartizione dell’accoglienza agli immigrati, rifugiati e migranti economici. Eppure, tanti esempi di buone pratiche hanno costellato questi nostri anni difficili, richiamando l’attitudine aquilana all’accoglienza, all’ospitalità, all’attenzione verso le culture diverse, in tante associazioni, parrocchie e nel centro d’accoglienza del Movimento Celestiniano.
Ne parlo con don Dante Di Nardo, un prete dell’Aquila alla guida di una Parrocchia nella periferia della città, la più popolosa delle periferie del capoluogo d’Abruzzo. Dal 2007 don Dante conduce la Parrocchia di San Francesco a Pettino. Vi era arrivato da Paganica, dove in 16 anni aveva portato avanti un lungo percorso di catechesi e pastorale, formando e maturando in quella comunità parrocchiale una forte consapevolezza all’accoglienza, al dialogo multiculturale, alla mondialità. Belle esperienze si erano realizzate a Paganica: l’accoglienza estiva, in più occasioni, di gruppi di ragazzi e bambini Saharawi, l’ospitalità ai ragazzi di Bucarest che vivevano abbandonati nei tunnel dei sottoservizi stradali, recuperati con il progetto del francese Miloud Oukili e da questi formati all’arte circense, altre accoglienze realizzate con diversi gruppi etnici. Insomma una palestra, per tanti giovani, di attenzione al mondo, e al mondo del bisogno. Un intenso esercizio durato anni, per la comunità paganichese, nella sensibilizzazione ai temi dell’accoglienza e del dialogo interculturale, di apertura al terzo mondo, di educazione alla pace e all’attenzione verso gli ultimi.
Don Dante, da dove vogliamo iniziare il racconto dell’accoglienza nella tua esperienza pastorale?
Non saprei da dove cominciare. Parto da una convinzione: niente si improvvisa e nulla avviene per caso. C’è una mano discreta, un occhio che vede oltre… e un cuore vigile che silenziosamente depone negli uomini il seme dei grandi ideali. E aspetta. Aspetta che il seme incontri il terreno della storia: volti, eventi, fatti, storie… Nascosto nel terreno buono della storia il seme muore, germoglia e cresce. Potrei cominciare da lontano, lasciandomi condurre dai ricordi, navigando tra i gesti di un tredicenne che trascorreva il suo tempo libero in una parrocchia attenta alle storie… Ma forse è meglio venire all’oggi, al grande desiderio di stare nella storia, negli avvenimenti che riguardano gli uomini e le donne con i quali condivido un tratto di strada.
Pensi che per il cristiano l’attenzione verso chi soffre e verso le persone lacerate dai drammi del nostro tempo sia un impegno primario per vivere autenticamente la Fede, un imperativo di umanità e fratellanza verso gli ultimi?
La regola dell’incarnazione vissuta da Gesù Cristo non permette al cristiano di stare fuori della storia. Risuonano ancora dentro di me le parole di un vecchio amico e maestro: “Dio opera non nonostante l’umano ma mediante l’umano”. Questa premessa mi sembra importante per mettere in evidenza ciò che dirige i miei passi e sostiene le mie scelte.
In questo spirito, la sensibilità individuale all’accoglienza come può diventare fatto consapevole di una comunità? Come si forma ed opera una parrocchia che accoglie?
Rispondendo all’appello di Papa Francesco, alcuni anni fa abbiamo fatto nostro il progetto di Caritas italiana “rifugiato a casa mia”, coinvolgendo l’intera comunità parrocchiale e alcune famiglie, in particolare. Da questo primo impegno ne sono nati altri, tuttora in corso: il progetto “Una casa per ripartire – Casa giovani” e l’accoglienza per richiedenti asilo, in collaborazione con la Cooperativa sociale L’Ape. “Casa giovani” è una realtà che accoglie i neo maggiorenni che hanno concluso il percorso nelle case-famiglia per minori e sono intenzionati a proseguire la formazione scolastica iniziata precedentemente. Questi giovani, compiuto il diciottesimo anno di età, usciti dalle comunità, avrebbero dovuto interrompere il loro percorso scolastico. Mi sono reso conto che questa necessità era ben presente sul nostro territorio e ho cercato di rispondere come meglio potevo. Ho iniziato contando sulle sole forze della Parrocchia e sulla buona volontà di alcuni parrocchiani. In seguito ho interpellato la Caritas diocesana e nazionale ed il progetto è stato inserito nell’ambito di una attività già esistente, “Una casa per ripartire – Casa giovani”.
Come avviene l’ingresso in casa?
La richiesta viene inoltrata alla Caritas diocesana e vagliata dall’équipe del Centro d’ascolto. Al momento dell’accoglienza in casa usiamo lanciare una provocazione: “a noi interessa il tuo futuro, se interessa anche a te cammineremo insieme”. In questo momento sono accolti 9 giovani di diverse nazionalità (Sudan, Egitto, Mali, Albania), impegnati in diversi settori della formazione scolastica (università, scuola professionale, scuola media superiore nel Centro Provinciale Istruzione per Adulti C.P.I.A., Istituto alberghiero). I giovani sono accolti in una struttura della parrocchia e grazie al sostegno della Caritas abbiamo la certezza di portare avanti il progetto per i prossimi due anni. Debbo un grazie grande a tutti i nostri parrocchiani, al nostro Arcivescovo e alla Caritas.
Mi dici qualcosa in più sulla cooperativa sociale, sui richiedenti asilo accolti e sulla loro provenienza?
L’Ape cooperativa sociale è una realtà nata da un gruppo di volontari della parrocchia. Come tutte le realtà che si immettono nel sociale, guarda le emergenze che si determinano nella nostra società con una particolare attenzione alle categorie più deboli. Rispondendo al bando della Prefettura dell’Aquila, la cooperativa si occupa dell’accoglienza e del percorso d’integrazione dei richiedenti asilo. Le presenze oscillano da un minimo di 20 ad un massimo di 26 persone. Gli operatori della cooperativa sono 10: mediatore culturale, psicologa, insegnanti di lingue, assistente sociale, consulente giuridico, addetti ai servizi. Oltre a queste figure, regolarmente inserite nell’organico della cooperativa, ci sono i volontari e operatori della Parrocchia. Diverse sono le nazionalità dei richiedenti asilo: Bangladesh, Pakistan, Palestina, Iraq, Iran, Somalia, Mali e altre nazionalità africane. Convinti che l’integrazione passi soprattutto attraverso la molteplicità delle relazioni, gli operatori si impegnano ad instaurare con ognuno degli accolti un’amicizia autentica, vera e leale. Assumendosi questo compito, e svolgendolo con spirito di servizio, gli operatori precedono gli abitanti del quartiere e dei fratelli della comunità parrocchiale sul cammino dell’integrazione.
Qual è l’impegno primario e prevalente nella formazione degli accolti?
Un ambito che assorbe gran parte dei nostri sforzi è la formazione scolastica, dalla prima alfabetizzazione alla capacità di comprendere, leggere e scrivere la lingua italiana. Le lezioni si svolgono in parrocchia e, quando è possibile, nel C.P.I.A., mattina e pomeriggio. Nella realizzazione di questo servizio i componenti della cooperativa sono coadiuvati dai volontari della parrocchia e dai giovani del servizio civile in essa presenti. È superfluo sottolineare che la maggior parte dell’insegnamento, date le diversità e la disparità del livello culturale, è diretto verso interventi personalizzati.
Quali sono i principali momenti di socializzazione?
Alcuni momenti belli che accomunano le due modalità dell’accoglienza si realizzano con la condivisione dei pasti e dei servizi, la frequenza alle attività dell’oratorio, le giornate ludico-formative – giornata della gratitudine, giornata ecologica, ecc.-, le gite culturali (Roma, Assisi, Foggia, Matera), la scoperta e conoscenza della nostra città e del nostro territorio. Un momento non strutturato, ma “sbriciolato” in ogni ambito di attività, è l’ascolto del “vicendevole raccontarsi”. Quanto coraggio! Quante ferite! Quante guarigioni! Quanti corpi sepolti nel deserto, e quanti visti galleggiare nel mare. Quante speranze coltivate da chi parte e quante attese racchiuse nel cuore di chi resta! Quanta gioia nel ricominciare a L’Aquila un’amicizia interrotta nell’infanzia, in Iraq! Ascoltando i racconti di Mohamed, Suleman, Ibrahim, Kalifa, Chatok… si può percepire l’odore che sale da quella “terra” nella quale l’aratro, con violenza, ha tracciato il solco. Solchi aperti, pronti ad accogliere il seme di una umanità nuova, autentica. Quanta responsabilità ci sta dando chi guida la storia!
Quali valutazioni trai da queste esperienze vissute a contatto con i migranti?
Non sono un idealista con la testa tra le nuvole. Anche se desidero un mondo senza confini, conosco tanti recinti e so quanto è forte il desiderio di abitarvi dentro. Vedo tanti muri e, in certi momenti, mi sembrano più rassicuranti degli spazi sconfinati. Vedo la terra che abito e sono tentato di farla mia. Guardo la patria, genitrice della mia identità, e faccio fatica a pensarla ugualmente madre di altre identità. Non sono un illuso sognatore, conosco il male: lo sento in me, lo sperimento intorno a me, lo vedo fuori di me e nella storia. Non sono nato ieri. La notte non dormo coltivando il sogno che all’alba del nuovo giorno vedrò “il lupo dimorare insieme con l’agnello, la pantera sdraiata accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascolare insieme guidati da un fanciullo” (cfr. Is 11,6). Ho piena coscienza del travaglio che dovrà attraversare questa generazione e le altre che ci seguiranno. Nonostante ciò, sono convinto che bisogna osare. Bisogna abbandonare l’umana ragionevolezza che blocca i desideri e dare spazio all’umanità che preme per realizzarli. Bisogna farsi voce di uomini e donne in cammino verso la piena umanizzazione. Chi può accompagnare l’umanità in questo cammino, se gli uomini e le donne di questa generazione ci rinunciano? Desidero solo ringraziare di cuore il vice parroco e tutti i volontari e collaboratori della Parrocchia. Una squadra straordinaria, altruista e generosa, premurosa e amorevole. Senza di loro nulla sarebbe possibile.
Don Dante, tra i ragazzi che accogliete, mi interesserebbe conoscere una storia. Immagino che tutte le storie di questi ragazzi siano un combinato di ferite, materiali e morali. Possiamo prenderne una da raccontare?
Potremmo sentire Ibrahim. E’ un giovane che ha fatto da poco 18 anni, porta ancora ferite dentro, ha un po’ difficoltà con la lingua, ma riesce a farsi capire. Lo chiamo.
***
Ibrahim arriva. E’ un giovane di colore, di media statura, gli occhi espressivi, il volto scavato come di chi ha già vissuto una vita. Ma disponibile ad un sorriso quasi riservato, prudente di timidezza. Sono due anni che sta ospite alla Parrocchia di Pettino. Originario del Gambia, piccolo Paese dell’Africa occidentale, una striscia di terra al confine con il Senegal, con un piccolo tratto di costa sull’Atlantico, era analfabeta fin quando non è arrivato all’Aquila. Gli parlo un po’, per entrare in empatia. Ma è Don Dante che ha le chiavi del cuore di tutti, con lui tutti si aprono, come a un fratello maggiore. Anche Ibrahim, con la sua sofferente discrezione, cede al racconto, fatto di parole stentate ma soprattutto di silenzi, velati di malcelata commozione…
Gli chiedo, se vuole, e se si sente, di raccontare la sua storia di migrazione.
«Sono nato in una umile e povera famiglia, in un villaggio del Gambia. Sono rimasto orfano di entrambe i genitori. La mia mamma è morta quando avevo 4 anni, mio padre quando ne avevo 6. Sono cresciuto con l’aiuto di alcuni parenti, ma le condizioni di povertà e di fame mi hanno convinto che là nel mio villaggio non potevo vivere e sopravvivere. Quando avevo 14 anni ho lasciato il mio Paese. Sono partito da solo. Sono arrivato in Italia due anni fa, il 24 maggio 2017. Ora ho 18 anni. Ho attraversato a piedi o con mezzi di fortuna molti Paesi africani, dove mi sono fermato in ciascuno alcuni mesi. Lavoravo per sostenermi e per mettere da parte qualche soldo. In Senegal ho fatto il giardiniere, ma ho lavorato anche quando sono andato in Mali, dove facevo piccoli lavori di facchinaggio, e in Burkina Faso, addetto a carico e scarico dai mezzi di trasporto. Sono stato più di un anno in questi tre Paesi. Poi, volendo raggiungere la Libia, sono andato in Niger, facendo anche lì lavori occasionali. Poi, con altri che volevano andare in Libia, abbiamo attraversato il deserto del Niger dietro carovane o in camion. Infine abbiamo fatto in camion il lungo viaggio nel deserto libico. In Libia ho fatto lavori di fortuna, poi ho lavorato come manovale con un padrone che aveva un’attività nell’edilizia. Un giorno, però, sono venuti nel luogo dove avevo un posto per dormire alcuni agenti della polizia. Hanno rovistato tutto, mi hanno preso i soldi che avevo messo da parte, mi hanno picchiato con violenza perché volevano sapere se avevo altri soldi. Quindi mi hanno preso e portato in un campo di detenzione dove ho passato due mesi terribili.»
Chiedo ad Ibrahim se vuole dirmi qualcosa di più sulla sua prigionia. Fa un cenno di diniego e si chiude in silenzio. Poi riprende…
«Un giorno i nostri carcerieri hanno preso un gruppo di quelli che eravamo nel campo, tra i quali anche io. Siamo stati portati su una spiaggia deserta, lontana da centri abitati. Siamo stati lasciati soli, ma ci hanno detto che sarebbe venuta una barca. Era quasi sera quando è arrivato un barcone a prenderci. Non avevamo da mangiare e solo poca acqua a disposizione. Siamo andati a largo. Abbiamo navigato tutta la notte e il giorno seguente, fino a quando il barcone non si è fermato, senza più carburante, restando in balia del mare. Siamo rimasti due giorni alla deriva, poi ci ha soccorso una nave italiana, era di sabato. Ci hanno recuperato, ci hanno dato acqua e da mangiare. Il giorno dopo, di pomeriggio, siamo arrivati in porto, a Lampedusa. Siamo rimasti quattro giorni nell’isola, poi chi hanno portato in Sicilia e là ci hanno fatto salire su un autobus che ci ha portato a L’Aquila. E’ venuta a prendere alcuni di noi la Cooperativa Ape, che ci ha assistito alla Questura, anche per presentare la richiesta di asilo. Qui nella Parrocchia di Pettino, insieme agli altri ragazzi, ci stanno insegnando la lingua italiana. Mi trovo molto bene. Don Dante mi dice sempre che la scuola e l’istruzione sono molto importanti, come imparare un mestiere, anzi di più. Ho lavorato un po’ anche al mercato dell’Aquila, a Piazza d’Armi. Ho una grande speranza di migliorare e la fiducia in chi mi sta aiutando, accogliendomi come un fratello. Spero di poter rimanere in Italia e ancor più a L’Aquila, dove mi trovo molto bene. Qui ho imparato a leggere e scrivere, a parlare italiano. Vorrei lavorare come giardiniere e costruirmi un futuro».
Don Dante mi informa che la domanda come richiedente asilo di Ibrahim è stata respinta, ma è stato proposto appello. Con la speranza che il futuro per questo giovane africano si possa aprire, perché il passato è stato lacerante e non richiama altro che miseria e dolore.
* Giornalista e scrittore
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