L’Abruzzo e la Steppa Asiatica uniti dalla Festuca del Vallese
Una nuova scoperta nel mondo della botanica -
Pescasseroli – Una specie relitta dalle steppe dell’epoca glaciale ritrovata per la prima volta in Appennino centrale, nella Marsica Fucense e all’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. La Festuca del Vallese (Festuca valesiaca), è attualmente una graminacea diffusa nelle steppe dell’Asia centrale, come ad esempio quelle della Mongolia, dove costituisce una delle erbe dominanti. Finora risultava nota in Italia solo in alcune valli aride delle Alpi. È stata ora individuata intorno al bacino del Fucino nonché nella Valle del Giovenco.
La scoperta è stata appena pubblicata sulla rivista scientifica “Plant Biosystems” dai botanici del Dipartimento DAFNE dell’Università della Tuscia (Viterbo), in collaborazione con i colleghi del Centro Ricerche Floristiche dell’Appennino (Barisciano, AQ) e del Laboratorio di Geobotanica dell’Università di Trier (Germania).
A seguito di approfondite esplorazioni botaniche in questi ultimi anni, si sono susseguiti ritrovamenti di specie steppiche – che non esistono altrove in Appennino – nelle conche interne abruzzesi. “La Festuca del Vallese arricchisce ulteriormente la varietà di specie tipiche delle steppe asiatiche che crescono isolate sui rilievi circostanti le conche del Fucino e dell’Aquila, aree caratterizzate da un clima più continentale del resto dell’Appennino” osserva Goffredo Filibeck, docente di geobotanica all’Università della Tuscia.
Diciottomila anni fa, al culmine dell’ultima glaciazione, vaste aree della penisola italiana erano dominate da una steppa come quella che oggi vediamo in Asia centrale. “La presenza congiunta di differenti specie relitte suggerisce che il clima continentale del Fucino, unitamente alla pastorizia praticata fin da epoca preistorica, ha mantenuto fino ai nostri giorni una sorta di ‘isola’ di flora della steppa: un museo all’aria aperta che ci rimanda a quando qui correvano i cavalli selvatici cacciati dall’uomo primitivo” continua Filibeck.
“La pianta, pur non essendo piccola, era finora passata inosservata in quanto è poco appariscente e molto difficile da distinguere rispetto a specie simili” spiega Laura Cancellieri, esperta di flora delle praterie, che ha per prima raccolto la specie nei pressi del borgo di Aschi. “Sono state necessarie, per l’identificazione, laboriose osservazioni al microscopio e ricerche negli erbari universitari; la conferma finale è venuta da un conteggio dei cromosomi effettuato dai colleghi del Centro Floristico di Barisciano”.
All’interno del Parco la zona con la più alta concentrazione di specie relitte steppiche è l’altopiano tra Aschi e Pescina che si rivela dunque un area di alto valore conservazionistico.
“Il ritrovamento conferma l’importanza delle praterie della Valle del Giovenco e dei versanti del Fucino, per la biodiversità e per la storia dell’ambiente del nostro Appennino,” – commenta Cinzia Sulli, responsabile del Servizio Scientifico del PNALM.
“Grande apprezzamento per la scoperta – ha dichiarato il Direttore del Parco Luciano Sammarone – a testimonianza che la ricerca scientifica è un elemento fondamentale non solo della conservazione ma anche e soprattutto della gestione dei territori. Inoltre grande plauso ad una scoperta frutto di un lavoro congiunto nazionale ed europeo a dimostrazione di come la collaborazione tra Enti sia sempre un valore aggiunto”.
I botanici fanno notare con preoccupazione la scarsa importanza che la normativa nazionale attribuisce ai pascoli. Le leggi italiane, infatti, tutelano rigorosamente qualunque tipo di bosco, mentre le praterie sono spesso considerate aree marginali o improduttive. “Intorno al Fucino, grandi superfici di antichissimi pascoli naturali sono state devastate dai tentativi di rimboschimento degli anni ’80, che hanno danneggiato il suolo per piantare conifere esotiche, creando un ‘deserto verde’ sotto al quale non cresce più nulla. Il rischio si ripresenta oggi visto che alcuni propongono, senza una accurata pianificazione ecologica, di piantare milioni di alberi in Italia per una mitigazione, peraltro molto dubbia, delle emissioni di CO2”, concludono i botanici.
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