PER COSTRUIRE, INSIEME, LA CIVILTÀ DEL PERDONO


Omelia pronunciata dall’Arcivescovo di L’Aquila, Card. Giuseppe Petrocchi, durante la Messa di chiusura della Perdonanza

L’Aquila – Ancora una volta la Porta della Perdonanza si spalanca davanti a noi. Ancora una volta risuona, per noi, l’esortazione accorata dell’apostolo Paolo: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5, 17-20).
Il Perdono, viene da Dio e ci è dato, gratuitamente, in Cristo; ma al Signore la nostra riconciliazione è costata la morte in croce. Infatti, le colpe che abbiamo commesso non ci sono state imputate, ma sono state caricate su di Lui: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (cfr. 2 Cor 5, 21). A noi sta rispondere a questo infinito Amore, attingendo alla sorgente inesauribile della Sua misericordia, che lo Spirito fa scaturire nella Chiesa.
Poi, da “perdonati” siamo chiamati a diventare “perdonanti”: la grazia, che abbiamo ricevuto, dobbiamo trasmetterla al prossimo, che ha contratto “debiti morali” verso di noi. Lo stile da assumere è lo stesso che Dio ha adottato nei nostri confronti: la carità che sa vincere il male mettendo in campo un bene più grande.
Va evidenziato che perdonare non è dimenticare, ma ricordare in modo evangelico, cioè con la sapienza e la generosità che vengono da Dio. E ogni atto di perdono richiede un esigente superamento di sé: non c’è misericordia a basso costo. Una misericordia superficiale e indebitamente anestetizzata diventa caricatura e non immagine vera del perdono di Dio. La misericordia non può essere svenduta: poiché, per essere autentica, deve portare impresso il segno della croce. Ogni perdono, infatti, nasce dalla partecipazione alla Pasqua di Gesù e ne mostra i contrassegni: cioè, l’amore-che-sa soffrire e, proprio per questo, l’amore-risorto che genera unità.
L’arte del perdono è una virtù alta, che ha radici teologali (nella fede, nella carità e nella speranza), perciò non va scambiata per “buonismo”, che ne rappresenta una forma alterata e svilita.

È in questo orizzonte va inserito il tema della indulgenza.
Il rapporto che lega ciascuno di noi a Dio e agli altri è paragonabile ad una tela comunionale, tessuta con i fili della carità. Il peccato rappresenta una lacerazione fatta su questo “tessuto relazionale” sacro. La confessione consente, con la remissione della colpa, di ricucire e reintegrare la sdrucitura inferta dal male compiuto: resta però il fatto che l’atto compiuto, in sé cattivo, merita un castigo, che va espiato attraverso una pena. Se il pentimento che ha accompagnato la nostra confessione non è pieno, rimane un residuo di pena, da scontare o quaggiù, nel corso della vita terrena, o, dopo la morte, in purgatorio. Dunque: «l’avvenuta riconciliazione con Dio non esclude la permanenza di alcune conseguenze del peccato dalle quali è necessario purificarsi. E’ precisamente in questo ambito che acquista rilievo l’indulgenza, mediante la quale viene espresso il “dono totale della misericordia di Dio”. Con l’indulgenza al peccatore pentito è condonata la pena temporale per i peccati già rimessi quanto alla colpa» (IM n. 9).
E’ importante sottolineare, in questa prospettiva comunionale, che l’indulgenza può essere applicata ai defunti. Infatti, in forza del battesimo, che ci innesta in Cristo, come tralci alla vite (cfr. Gv 15, 1-7), si stabilisce tra i discepoli del Signore una misteriosa unità, che la teologia ha definito “comunione dei santi”. «Si instaura così tra i fedeli un meraviglioso scambio di beni spirituali, in forza dei quale la santità dell’uno giova agli altri ben al di là del danno che il peccato dell’uno ha potuto causare agli altri. Esistono persone che lasciano dietro di sé come un sovrappiù di amore, di sofferenza sopportata, di purezza e di verità, che coinvolge e sostiene gli altri. E la realtà della “vicarietà”, sulla quale si fonda tutto il mistero di Cristo» (IM n. 10).

Gesù e solo Lui è la Porta che Dio ha aperto nella nostra esistenza, perché imparassimo a passare dal dubbio alla luce, dallo scoraggiamento alla speranza, dalla tristezza alla gioia, dalla solitudine alla comunione, dal peccato alla santità. Se ci dovesse capitare di restare imbrigliati in difficoltà che ci tolgono la pace e rubano la gioia, prima di mettere sotto accusa le situazioni esterne che le hanno prodotte, sarebbe più saggio chiederci: questa opacità interiore che mi porto addosso e la scontentezza che mi domina non dipendono forse dal fatto che sono rimasto impantanato nei problemi e non ho varcato la “porta santa” – cioè la Pasqua del Signore – che sola può rendere ogni croce sorgente di risurrezione?
Un segno fondamentale, che attesta in noi l’azione della misericordia ricevuta e donata, è l’esercizio della carità, che è l’amore di Cristo diffuso nei nostri cuori dallo Spirito. Questo amore abbraccia tutti, nessuno escluso, ma testimonia un’attenzione speciale verso i più bisognosi. Ciò vuol dire privilegiare gli ultimi: cioè rendere operativa “l’opzione dei poveri”. La comunità cristiana, proprio perché “Chiesa dei poveri”, sta dalla parte degli ultimi, degli sconfitti, degli scartati: dove si trova qualcuno che soffre, lì la Chiesa erige la sua tenda. Nella categoria dei poveri vanno compresi tutti quelli che mancano di qualcosa che è loro necessaria per vivere una esistenza dignitosa, sul piano umano e religioso.

Chi perdona non indietreggia di fronte al male: al contrario, lo identifica e lo combatte con una forza moltiplicata, che non viene dall’uomo ma da Dio.
Il testo del Vangelo di Marco (Mc 6, 17-29) disegna la fisionomia di personaggi che hanno una portata più ampia della loro storia: infatti, presentano profili che tendono a riproporsi, anche se in modalità diverse, nell’esistenza personale e collettiva.
Erode è un uomo nel quale il vizio si è profondamente infiltrato, ma che rimane ancora capace di simpatizzare, in forme altalenanti e fievoli, con il bene. Oscilla tra il “sì” e il “no” alla verità, senza riuscire a riscattarsi dalla mediocrità e da comportamenti turpi. È succube dei suoi difetti, che lo rendono egoista, dispotico e inaffidabile. Perciò, diventa preda del peccato e autore, a sua volta, di ingiustizie e sopraffazioni.
Erodiade, invece, resta compatta nella sua furia assassina: non si fa scrupoli, e utilizza la figlia Salòme, come “esca” seduttiva per il suo disegno omicida. Erode cade nella trappola e si sente costretto, suo malgrado, a sottoscrivere la sentenza che condanna a morte Giovanni il Battista. E proprio Giovanni, apparentemente sconfitto, in realtà trionfa: il suo martirio segna la disfatta completa dei suoi persecutori.
La Perdonanza, proprio perché ci chiama alla conversione e al rinnovamento evangelico, ci costituisce “alleati” di Giovanni il Battista: pronti, come lui, a denunciare con coraggio il male e a diventare testimoni perseveranti dell’amore cristiano, disposto ad andare contro-corrente. Chi varca la Porta Santa si impegna a dissolvere, in sé e nell’ambiente in cui opera, l’ombra oscura di Erode e di Erodiade, che si proiettano cupe su vaste zone della cultura contemporanea. L’adesione alla Parola di Dio e la fedeltà alla grazia non consentono complicità con devianze e corruzione, e neppure con atteggiamenti avidi e aggressivi: dove la dignità umana viene violata e quando le legittime esigenze di sviluppo integrale delle persone vengono ignorate o calpestate, il discepolo del Signore ha l’obbligo di alzare la sua voce, in modo non violento ma deciso, a difesa della “giustizia integrale”, del singoli come delle collettività, seguendo l’esempio del Battista. Occorre attivare la carità «che – come scriveva Giovanni Paolo II – apre i nostri occhi ai bisogni di quanti vivono nella povertà e nell’emarginazione. Sono, queste, situazioni che si estendono oggi su vaste aree sociali e coprono con la loro ombra di morte interi popoli. Il genere umano si trova di fronte a forme di schiavitù nuove e più sottili di quelle conosciute in passato; la libertà continua ad essere per troppe persone una parola priva di contenuto» (IM n. 12).
Anche di fronte ai prepotenti di oggi, che esercitano la loro volontà di dominio in forme spesso subdole e distruttive, bisogna avere la “franchezza audace” del profeta, che poggia sulle promesse che abbiamo ascoltato nel testo di Geremia: «tu, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro..Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (Ger 1,17-19).
Ancora una volta – come scrive Giovanni Paolo II – va sottolineato che «Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell’ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell’ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali» .
La Perdonanza, dunque, non ha solo un “raggio” ecclesiale, ma anche valenza sociale. Proprio questa “saldatura” tra evento liturgico e dimensione civile costituisce una caratteristica speciale che rende la Perdonanza celestiana, celebrata a L’Aquila, evento unico e al tempo stesso universale. Sta su questo “crinale” – che congiunge il versante della fede e della ragione – la novità del messaggio consegnato alla nostra Città, ma rivolto, attraverso una “mediazione aquilana” – al mondo intero.
In tale prospettiva, mi ritrovo, per intero, nelle parole forti di Papa Francesco, il quale ha dichiarato che nell’eredità spirituale ed etica di Celestino V compare «la profezia di un mondo nuovo: misericordia è profezia di un mondo nuovo, in cui i beni della terra e del lavoro siano equamente distribuiti e nessuno sia privo del necessario, perché la solidarietà e la condivisione sono la conseguenza concreta della fraternità» .
La Celebrazione della Perdonanza non può essere solo un evento esteriore: una sorta di mantello posto provvisoriamente su una veste macchiata e destinato ad essere dismesso, lasciando le cose com’erano, non appena la Porta santa si chiude. La Perdonanza va celebrata nell’Anima della Chiesa e nel Cuore della Città. Perciò, nel fare un “bilancio” della Perdonanza si dovrebbe assumere, come indice di successo, il cambiamento in meglio, registrando – nel corso dell’anno – i progressi avvenuti nella mentalità e nello stile di gestione dei rapporti interpresonali, famigliari, culturali, sociali ed istituzionali.
L’Aquila ha una missione da svolgere, con le parole e nei fatti: quella di proclamare la Civiltà della Perdonanza.
Per questo L’Aquila da Città “tra” i monti deve, sempre di più, porsi come Città “sul” monte (in senso evangelico): capace di vivere e di diffondere, a livello planetario, il Messaggio di Papa Celestino.
Questa 725ma edizione della Perdonanza, ricorre, come è noto, nel 10° anniversario del terremoto. Da credenti, non possiamo limitarci a “subìre” gli eventi, accettandoli con rassegnazione, ma siamo chiamati ad “interpretarli” alla luce del Vangelo e riconoscere il flusso di grazia che li attraversa. Per questo, accompagnati da Papa Celestino dobbiamo varcare la “porta degli eventi”, per leggere ciò che il Signore, crocifisso-risorto, ha scritto in queste pagine dolorose della nostra storia. Solo così potremo cogliere, sempre meglio, il significato salvifico che “portano dentro” e rispondere alla sfida del sisma, con la saggezza e la tenacia dei figli di Dio: “esperti nel vivere la risurrezione”.
Affidiamoci a Maria, Donna del Perdono e Madre della Comunione. Sia Lei a guidarci sui sentieri – talvolta faticosi, ma sempre consolanti – della volontà di Dio, per ricevere e diventare una benedizione.
Vorrei concludere con le parole di una preghiera che mi ha inviato, per lettera, una giovane Aquilana: “Aiutami, Signore, a mettere in pratica la tua Parola, perché, negli ambienti in cui opero, possa “riflettere” Te e così costruire la “Città della Pace”.


29 Agosto 2019

Categoria : Attualità
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