L’Aquila, dieci anni dal terremoto del 2009


di Luigi Fiammata -
L’Aquila – Il terremoto segna una scissione nel senso comune dei cittadini. A L’Aquila, tutto si definisce indicandone le condizioni, prima e dopo il terremoto. Eppure, non è possibile comprendere i processi attivati dal post sisma, e le attuali condizioni della città, se non si tiene conto della permanenza, e degli effetti, delle dinamiche che caratterizzavano la città, prima del 6 aprile 2009. La Destra ha governato L’Aquila dal 1998 al 2007, minandone in profondità l’impianto urbano, attraverso il ricorso ad una pluralità di forme di edilizia contrattata e condividendo, con il Centrosinistra, l’attenzione alla preminenza degli interessi degli imprenditori edili locali. La Cassa di Risparmio locale ha sostenuto questo intreccio tra impresa edile e politica, anche oltre il legittimo, e, anche per questo, entrata in sofferenza, è stata poi acquisita, dopo il sisma, da una azienda di dimensione nazionale, che ha presto spostato altrove i centri decisionali e che molto debolmente sostiene oggi le imprese del territorio.

Prima del sisma, L’Aquila si identificava col suo Centro Storico, che era area direzionale, e di pregio monumentale, luogo principe della socialità cittadina e luogo d’elezione della rendita immobiliare che approfittava della vasta presenza di studenti universitari fuori sede, cui era affittato, spesso fuori regola, un costruito privo di condizioni di sicurezza. Le periferie erano preda di assalti selvaggi al paesaggio da parte di una edilizia senza pregio, e senza spazi pubblici, che in molti luoghi sommava, e somma ancora oggi, la presenza contemporanea di insediamenti abitativi disorganici, con capannoni industriali, vuoti, costruiti perché una Legge Regionale ne favoriva l’edificazione senza vincoli, privilegiandone la sola rendita fondiaria e disinteressandosi di un vero impiego produttivo o di servizio. Le frazioni della città, che prima del fascismo avevano dimensione comunale autonoma, erano rimaste un sistema distante e disorganico rispetto all’area urbana, avviato a trasformarsi lentamente in periferia senza più anima.

A luglio del 2008, venne arrestato il Presidente della Giunta Regionale Ottaviano Del Turco, insieme ad alcuni dei suoi Assessori. E furono indette nuove elezioni, che, a dicembre, videro la Destra riprendere il controllo della Regione. L’intervento della Magistratura aprì l’ennesima crisi della legalità, e della credibilità della classe politica in Abruzzo, sul terreno della Sanità, che sarebbe stato decisivo per definire una stagione di nuovo, universale, efficiente ed efficace welfare in un una regione caratterizzata da un territorio difficile, in larga parte montuoso, e dalla viabilità disagevole; soggetto a forti processi di invecchiamento della popolazione e di spopolamento delle aree interne. La Sanità pubblica invece, è stata oggetto di un continuo ed indiscriminato taglio delle risorse e dei servizi, senza neppure ridefinirne correttamente il rapporto con la Sanità privata o convenzionata, ma anzi, perpetuando ed accrescendo sprechi e dinamiche clientelari e baronali.

Buona parte della classe dirigente locale, e regionale, è composta da medici, in tutti gli schieramenti politici. Gruppi di potere, spesso trasversali e perfettamente adattati alla prevalenza ormai ideologicamente acquisita delle ragioni del mercato, sul bisogno di Salute, si disputano il capitolo “Sanità”, quello più ricco in assoluto dell’intero bilancio regionale. L’intreccio tra costi della Sanità e irresponsabilità della politica e dell’amministrazione, ha toccato il suo culmine subito dopo il sisma del 2009, quando la Giunta Regionale di Destra ha sottratto alla ASL aquilana 47 milioni di euro – erogati dall’assicurazione sottoscritta contro il danno per il terremoto, e che avrebbero dovuto essere utilizzati per ricostruire gli immobili danneggiati dal sisma – per allentare le sofferenze del bilancio regionale al limite del dissesto; l’Ospedale aquilano, così, a dieci anni dal sisma, ancora non è stato del tutto ricostruito e una parte strategica della città, l’intera collina prospiciente la Basilica di Collemaggio, con i suoi numerosi edifici dell’ex manicomio, della Direzione Sanitaria e dei Distretti sanitari territoriali, è in totale abbandono, mentre la ASL, proprietaria dei luoghi, paga fior di affitti ai costruttori locali per le sue sedi “provvisorie”.

A settembre del 2008 iniziarono ad avvertirsi i primi segnali, a livello nazionale, della terribile crisi economica, che, iniziata con la bancarotta della finanza statunitense, è, ancora oggi, non riassorbita dall’economia mondiale. A L’Aquila la crisi impatta su un territorio che, nel 1994, con il primo governo Berlusconi, è stato espulso, prima della naturale scadenza, dal sistema di sostegno straordinario dell’Europa per il Mezzogiorno e che ha appena subito colpi terribili dalla riorganizzazione del sistema delle imprese a Partecipazione Statale, un tempo nerbo di una presenza industriale importante, nella produzione e nei servizi per le Telecomunicazioni, anche spaziali e per la Difesa, oltre che nelle industrie elettroniche specificamente vocate ai sistemi d’arma. Un intero settore industriale, con migliaia di occupati di cui oltre il 50% donne, con le sue competenze e professionalità pregiate, viene totalmente cancellato dai processi di privatizzazione insensati e gestiti solo nell’ottica del rientro dal debito pubblico in previsione dell’ingresso dell’Italia nell’area dell’euro. Per la prima volta nella storia repubblicana della città, è impossibile alla politica locale intervenire nei processi economici, la cui portata, e la cui origine, è troppo lontana e ampia, perché possa essere condizionata. La mancata percezione di questa debolezza strutturale del sistema locale, da parte delle maestranze interessate, della politica locale, della città complessivamente e di larga parte del Sindacato territoriale, lascia sul terreno la sensazione di una violenta e inspiegabile ingiustizia subita, che non consente di organizzare risposte e alternative credibili, ma solo la ricerca di capri espiatori.

La città quindi, alla vigilia del sisma, vive una situazione di forti disequilibri, tra Centro e Periferia, tra Occupati e Espulsi dai luoghi di lavoro; tra poteri locali indeboliti, frammentati nelle competenze e messi in competizione tra loro dalla improvvida riforma “federalista” di Bassanini e poteri nazionali e globali. Vive una profonda crisi di prospettiva, avendo investito molto di sé stessa nella formazione e nell’alta formazione, ma ritrovandosi improvvisamente quasi del tutto priva di sbocchi credibili per i giovani che contribuiva ad istruire. L’Aquila è segnata dai processi di marginalizzazione delle aree interne del Paese e vede accentuare la propria passivizzazione, poiché la fonte preponderante di sostentamento è il flusso di risorse pubbliche verso la città, con gli stipendi alla diffusa classe di lavoratori pubblici di un capoluogo di Regione – ivi comprese le scuole d’ogni ordine e grado e una Università che contava oltre ventimila iscritti – con le pensioni erogate ad una popolazione che invecchia e che ha visto, prima del tempo, porre in quiescenza migliaia di persone prima impegnate nell’industria, con il sostegno generalizzato alle numerose, ricche di storia preziosa e qualificate Istituzioni culturali cittadine.

E poi arriva il trauma.

Il terremoto dell’Aquila, da subito, diviene innanzitutto una rappresentazione mediatica. La città è raccontata dai mezzi di comunicazione di massa, dalla televisione in special modo, con una capacità di drammatizzazione enorme e secondo una precisa e attenta scansione sceneggiata. Mentre i cittadini vengono obbligati, in massa, ad abbandonare la città, è messo in atto, subito, un percorso che non deve ripetere le scansioni temporali che hanno caratterizzato altre tragedie nazionali. La tripartizione di “gestione dell’emergenza – transizione – ricostruzione”, è abolita. Il Presidente del Consiglio non può permettersi che L’Aquila sia esposta allo stesso modo in cui le sue televisioni hanno mostrato, puntualmente e per ragioni di opportunità politica, il terremoto in Umbria: la presenza nei telegiornali, delle immagini, ad ogni ricorrenza, degli stenti delle “Festività nei container”, per i terremotati, non può essere consentita. La fase di transizione è perciò cancellata e con essa anche la possibilità di sedimentare un racconto condiviso della tragedia nella popolazione. E di costruire una riflessione seria e capace di traguardare il futuro, sui caratteri e la qualità della ricostruzione di un Capoluogo di Regione, la cui distruzione e recisione di tutti i gangli sociali, economici, relazionali, direzionali e di elaborazione, è subitanea e totalmente inedita nella storia del Paese. La volontà di “dare un tetto” in tempi rapidissimi a decine di migliaia di persone è assolutamente lodevole e innovativa. La proposta del “Progetto C.A.S.E.” tramortisce l’intero Centrosinistra al governo della città, e le forze sociali, e ne sancisce l’afasia anche col prolungamento strumentale dei poteri commissariali, in varie forme, fino al dicembre del 2012.

Il terremoto si trasforma in un grimaldello utile a cambiare i rapporti di potere, e l’equilibrio dei rapporti tra poteri, in Italia.
La gestione dell’emergenza nella città è caratterizzata dalla sospensione di ogni regola di democrazia. Sin dalla prima Ordinanza post sisma viene sospesa la validità, per il territorio colpito dal sisma, di decine e decine di leggi di indirizzo e controllo dell’intervento pubblico: ad esempio, tutto il codice degli Appalti; tutto il magistero di controllo della Corte dei Conti; tutta la normativa sul trasporto dei rifiuti, anche tossici, speciali e pericolosi; persino la legge sulla trasparenza degli atti della Pubblica Amministrazione è abolita, a L’Aquila, tra l’altro. E’ qui che si innesta il tentativo di trasformare la Protezione Civile in una Società per Azioni cui affidare la realizzazione di tutte le Grandi Opere Pubbliche, in regime di emergenza, anche sotto il profilo della gestione dell’ordine pubblico, e che è bloccato solo quando emergono gli scandali delle “cene galanti” nella residenza del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Un fiume di risorse finanziarie, un mare di persone mobilitate per L’Aquila, un oceano di solidarietà vera, nazionale, e internazionale, talora raccontati e amplificati dai canali televisivi e dalla carta stampata, non ancora sottoposta all’attacco dei Social Media, rendono indicibile il dissenso. Nessuna discussione fu possibile, e neppure oggi lo è, in realtà, riguardo l’impatto del Progetto C.A.S.E. sulla realtà cittadina. Da ottobre del 2009, il Progetto C.A.S.E. ospita confortevolmente e dignitosamente, fatto salvo qualche crollo negli ultimi anni, migliaia di aquilani spossati dal sisma e da mesi di lontananza fisica dalla città. Ma oggi tende a trasformarsi in residenza riservata a fasce marginali della popolazione: il rischio di doversi confrontare con dei ghetti è altissimo, già ora. I veri costi del Progetto C.A.S.E. sono un mistero, mentre non lo sono le fonti che ne finanziarono la realizzazione: il Fondo Europeo di Solidarietà per le calamità naturali fu praticamente impiegato per intero, e, pertanto, il “merito” della realizzazione del Progetto C.A.S.E., andrebbe almeno diviso con l’Unione Europea e non essere oggetto di vanto esclusivo del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’epoca.
Il ricorso alle risorse dell’Unione, inoltre, vincola il destino futuro dei diciannove “quartieri” sparsi per il territorio comunale: essi devono restare strutture “temporanee”, ma i cui costi, in realtà, per l’abbattimento e il ripristino del territorio, nessuno sosterrà mai. E quelle “strutture temporanee” non possono generare “utili” per il Comune, divenutone nel frattempo il proprietario, che pertanto non può alienarli a soggetti utilizzatori che avrebbero tutto l’interesse a mantenerne intatta ogni funzionalità. Si è taciuto per anni che la quantità di risorse necessaria ad una vera manutenzione di quei complessi residenziali, non è realisticamente sostenibile dal solo bilancio del Comune di L’Aquila, che, peraltro, soffre fino al limite del collasso finanziario per i mancati introiti derivanti dall’evasione del pagamento delle bollette per le utenze (tutte formalmente in capo al Comune proprietario), che tantissimi inquilini del Progetto C.A.S.E. hanno praticato e praticano, talvolta per vero bisogno, molto più spesso per intollerabile cinismo, tutt’oggi; spesso irresponsabilmente spalleggiati da quasi tutte le formazioni politiche che hanno cavalcato, secondo le convenienze elettorali del momento, una demagogica idea di “assistenza totale”. La città militarizzata e quasi interamente svuotata, nel luglio 2009, quando la riunione del G8, con un colpo di teatro, fu spostata dalla Sardegna a L’Aquila, racconta un potere che, purché non sia disturbato ma ubbidito, elargisce con assoluta generosità assistenza e sostegno, e persino una intera estate aquilana di spettacoli d’intrattenimento dal vivo di grande qualità, mobilitando il meglio degli artisti italiani, gratuitamente.

Il territorio comunale, coi suoi nuovi nuclei abitati costruiti in quei mesi, si estende ora lungo l’asse Est-Ovest per oltre trenta chilometri, senza che vi siano le risorse per i corrispondenti necessari servizi pubblici, dal trasporto alla raccolta dei rifiuti, ad esempio, o una dotazione infrastrutturale adeguata, e senza che l’edificazione di questo patrimonio residenziale aggiuntivo abbia contribuito a eliminare l’abusivismo edilizio, che, al contrario, è esploso, usando come cavallo di Troia una sciagurata Delibera comunale della Giunta di Centrosinistra. Quell’atto autorizzava la realizzazione di manufatti provvisori in legno nella fase d’emergenza, i cui oneri di urbanizzazione sono stati a totale carico delle risorse pubbliche, e che ha generato poi migliaia di “casette di legno” (censite, peraltro), abusive persino per i criteri previsti dalla Delibera, ma anch’esse urbanizzate e oggetto oggi dell’attesa di una sanatoria generalizzata, nel cui nome sono stati eletti alcuni consiglieri della Destra vincente alle ultime elezioni comunali. Il patrimonio edilizio abitativo di L’Aquila, senza contare gli insediamenti del Progetto C.A.S.E. capaci di ospitare oltre tredicimila persone, è sovradimensionato di circa il 30%, rispetto ai residenti attuali (poco meno di settantamila), anche per le previsioni del Piano Regolatore della città, risalente ai primi anni ’70, e da allora mai cambiato, se non con interventi in deroga, che immaginava una città di centoquarantamila abitanti, e estendeva le aree edificabili a quella dimensione demografica. A questa inflazione di appartamenti vuoti s’aggiungono i “premi di cubatura”, che le Leggi varate dai vari Governi, hanno nel frattempo consentito nella ricostruzione e che hanno generato, anche per questa via, nuova edificazione.

Il Centrosinistra ha governato la città dal 2007 al 2017. Nessuno, obiettivamente, può immaginare che vi fosse una classe dirigente locale preparata alla tragedia e all’incredibile sconquasso che ha colpito la città. Ma quella Amministrazione è, culturalmente prima che politicamente, corresponsabile dell’attuale conformazione urbana e sociale della città. Quando il Governo del Presidente del Consiglio Berlusconi iniziò a discutere la Legge che avrebbe dovuto presiedere alla ricostruzione della città, fu subito chiaro che la quantità di risorse economiche che sarebbe stata posta a disposizione dei cittadini avrebbe reso materialmente impossibile ricostruire L’Aquila, talmente sottodimensionate erano le cifre. Il Centrosinistra, locale e nazionale, guidò l’opposizione alle scelte del Governo. La parola d’ordine, che mobilitò la città, chiedeva che il danno fosse risarcito al 100%, richiesta assolutamente legittima, e che tutto fosse ricostruito come era e dove era. Come se la ricostruzione di ogni singola abitazione privata, ricostruisse una città.

Una città è fatta di storia, e di storie. Di relazioni. Di interessi economici e conflitti. Di dinamiche culturali e produttive. Di servizi e di formazione e istruzione. Di luoghi pubblici e d’incontro, di commerci, di attività amministrative e direzionali. Di emergenze artistiche e ambientali, di luoghi di culto. E tutto è unito in uno spazio fisico, ed immateriale, le cui funzioni sono talvolta gerarchizzate, talaltra capaci di convivenza paritaria, ma sempre mutevoli e bisognose d’interpretazione e governo. Non può essere ridotta una città alla somma del suo patrimonio immobiliare. Ed invece quelle parole d’ordine hanno reso la ricostruzione un processo eminentemente individuale, familiare, al più; e che si esaurisce nella riparazione della propria abitazione, o delle proprie abitazioni. Il futuro, nelle aspettative degli aquilani, sarebbe stato caratterizzato, semplicemente, dal ritorno allo splendore di un passato idealizzato.

L’Aquila oggi non ha una identità; è un vasto spazio disperso, disordinato ed affastellato, congestionato, nel quale si sono formati nuovi poli di attrazione, dopo la perdita di rilevanza del Centro Storico, senza che ne sia stata strutturata, urbanisticamente, l’importanza; che, anzi, grava su infrastrutture assolutamente inadeguate, in aree del tutto prive di spazio pubblico. Tutto l’asse della Strada Statale 17, ad ovest e ad est della città, per esempio. L’Aquila è percorsa, di fatto, solo in automobile, anche per brevi distanze; le relazioni sociali vivono quasi solo se strutturate, in orari, in luoghi. La gran parte della città, e delle sue frazioni, è vissuta solo per il ritorno alle abitazioni individuali, chiuse, e separate tra loro, dentro un contesto urbano disseminato di recinzioni. L’incontro tra persone avviene in aree interstiziali, o come derivato della frequentazione di luoghi del consumo. L’intero Centro Storico è oggi quasi un deserto di presenze stabili; smozzicato e ancora semidistrutto. Privo di una qualsivoglia fisionomia urbana, con la sua alternanza di zone parzialmente ricostruite, anche con immobili ed edifici di pregio storico-architettonico magnificamente rivitalizzati, pur se spesso privi di funzione, e di vastissime aree ancora totalmente ferme al 7 aprile 2009. Nel Centro Storico si concentravano, prima del terremoto, oltre mille attività di commercio, artigianali e professionali. Ne sono aperte ad oggi, dopo dieci anni dal sisma, un’ottantina circa. Quasi nessuna chiesa ha visto riparati i danni, talora gravissimi, subiti dal terremoto, per il contenzioso aperta dalla Curia, che chiede di essere stazione appaltante unica, e col diritto di affidare i lavori a trattativa privata, in contrapposizione alle scelte del Ministero dei Beni Culturali e alla necessità di gare ad evidenza pubblica. Lo svuotamento del Centro Storico ha generato un imponente processo di ridislocazione delle attività nelle periferie e nei Nuclei Industriali di Sviluppo, e nessuno, ad oggi, immagina un riuso delle strutture che, probabilmente, nel giro di una decina d’anni, saranno abbandonate per un ritorno nelle aree centrali, prefigurando, in questo modo ulteriori alterazioni e ferite del tessuto urbano.

I diversi schieramenti politici hanno usato e usano il terremoto per le loro contrapposizioni, fatte anche di strumentalizzazione delle difficoltà oggettive e di spregiudicato utilizzo dell’emergenza. La Legge per la ricostruzione della città, del giugno 2009, contiene, ad esempio, la totale liberalizzazione del gioco d’azzardo, anche on line, in Italia, con tutto il suo coinvolgimento potenziale della criminalità organizzata, utilizzando il pretesto che una parte degli introiti derivanti dalla tassazione dell’azzardo – peraltro questa previsione di Legge non è mai stata effettivamente verificata – sarebbero stati destinati ai processi di ricostruzione della città. Non è stato possibile mai, in alcun momento della gestione post sisma, un terreno comune di riflessione, dibattito e decisione tra le varie forze politiche, pur nel permanere delle diverse identità. Tra i cittadini che non abbiano subito lutti, l’uso strumentale e propagandistico del terremoto ha alimentato una divisione profonda, fondata in realtà, più sulle conseguenze materiali soggettive che la furia della natura e l’indifferenza delle Leggi ha riverberato su ciascuno, che su diverse prospettive progettuali o di senso.

Ha pesato, enormemente, sui tempi della ricostruzione, la lotta defatigante perché fossero disponibili risorse davvero sufficienti, coronata da sostanziale successo solo nel 2013, col Governo Monti e il Ministro per la Coesione Territoriale Fabrizio Barca. Così come ha pesato enormemente, rendendo la ricostruzione impossibile, la normativa per la gestione dell’emergenza che ha spossessato, in quella fase, la città delle sue reali possibilità d’intervento. E pesa ancor oggi la normativa che ha stabilizzato le modalità di ricostruzione, comunque estremamente farraginosa, densa di insidie e lacunosa in alcuni punti decisivi; tale da rendere possibili forti disparità di trattamento e arbitrii generalizzati. La ricostruzione dei palazzi di proprietà privata danneggiati dal sisma, ad esempio, è stata strutturata a partire dalla libera determinazione delle Assemblee condominiali, che hanno il compito di affidare i lavori a tecnici e imprese, sulla base di progetti, posti poi all’attenzione di una speciale struttura pubblica che ne certifica la congruità e assegna le risorse necessarie agli interventi. Le Assemblee condominiali, però, non avevano, e non hanno in genere, le competenze tecniche e scientifiche per scegliere una tipologia ricostruttiva piuttosto che un’altra, rispetto alla sicurezza antisismica ad esempio, o per valutare la congruità economica e tecnica di un’offerta, o la solidità finanziaria, la professionalità e competenza di un’impresa piuttosto che di un’altra, producendo per questa via ritardi nei tempi di ricostruzione – per il fallimento di imprese affidatarie ad esempio – contenzioso e indeterminatezze. Inoltre, le Assemblee condominiali possono essere state artatamente, ed impunemente, condizionate da relazioni inconfessabili tra progettisti, amministratori di condominio e imprese; non esiste nel nostro Paese, infatti, il reato di corruzione tra privati, e questo può aver reso possibili innumerevoli malversazioni nell’affidamento di lavori, che talvolta ammontano a milioni di euro anche per un singolo edificio.

L’alternativa sarebbe stata affidare la ricostruzione privata alla normativa in vigore per gli appalti pubblici, e qualcuno ci aveva anche pensato. Ma questo avrebbe reso totalmente impossibile la ricostruzione della città: prova ne sia che tutti gli edifici di proprietà pubblica, comprese le scuole di ogni ordine e grado, danneggiati dal sisma, non sono stati ancora ricostruiti (salvo due o tre importanti eccezioni). Sulle scuole, in particolare, ad agosto del 2009, si consumava una beffa tragica per mano di una circolare interpretativa del Ministero delle Opere Pubbliche, retto allora dal ministro Altero Matteoli, riguardante la Legge sulla ricostruzione di L’Aquila del giugno 2009. Quella Circolare stabilisce, di fatto, che per tutte le scuole della città, che non siano crollate col sisma, ma abbiano resistito sia pur danneggiate, sia sufficiente, perché siano agibili, l’adeguamento alla vecchia normativa antisismica e non invece necessario il massimo tecnologicamente installabile degli accorgimenti costruttivi per resistere a futuri possibili terremoti. Il terremoto di L’Aquila lascia aperto quindi, per lo Stato italiano, il problema di avere una normativa quadro che risolva il nodo di risorse pubbliche gestite liberamente da soggetti privati: che tuteli certo la finanza pubblica da sperperi inaccettabili, ma dia anche certezze di diritto alle popolazioni colpite, sul piano dell’assistenza dovuta e sulle misure del ristoro, e che preveda un certo grado di adattabilità a specifiche condizioni territoriali, soprattutto in merito all’intreccio tra disposizioni urbanistiche vigenti al momento dell’evento e interventi di risposta, per impedire speculazioni o occasione di violazione dei vincoli ambientali e storico-architettonici di un luogo.
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L’assenza di uno strumento simile, a L’Aquila, ha comportato tra l’altro, uno scontro durissimo sulla figura del Commissario per l’Emergenza che coincideva con il capo del Dipartimento della Protezione Civile. Percepito da una parte della popolazione come il salvatore messianico (e per tutta una lunga fase l’intera classe politica del territorio, senza distinzioni di colore, lo ha omaggiato come se fosse il sovrano benevolo delle azioni di intervento sull’emergenza), e da un’altra parte della popolazione come il prevaricatore tirannico, responsabile peraltro, almeno moralmente, dell’inganno mediatico dalle conseguenze tragiche della riunione della Commissione Grandi Rischi tenutasi a L’Aquila il 31 marzo 2009, che aveva rassicurato la popolazione in merito ai possibili sviluppi dello sciame sismico iniziato a dicembre 2008 e crescente in intensità, oggetto di tre gradi di processo, che hanno infine assolto tutti gli imputati, tranne uno. Il terremoto di L’Aquila, anche per questa via, evidenzia la deformazione preoccupante, avvenuta in questi anni, del senso dello Stato; come se essere responsabile nazionale della Protezione Civile non imponesse, di per sé, il massimo dell’impegno e dell’azione positiva a tutela e salvamento delle popolazioni interessate da calamità naturali, ma consentisse invece, per come il ruolo è stato materialmente esercitato, arbitrio graziosamente elargito; le caratteristiche soggettive del titolare di una carica, sostituiscono totalmente e annullano le sue prerogative, e doveri, d’istituzione.

Per una breve stagione, la città ha vissuto un importante protagonismo civico che ha combattuto le storture della gestione emergenziale e le ingiustizie che si profilavano a danno della comunità, in alcuni momenti con un vasto consenso di popolo, e che ha posto, in alcune sue parti, rilevanti questioni di prospettiva; sul piano del disegno urbano e della qualità dei processi di ricostruzione e sul piano della necessità di coniugare alla ricostruzione fisica un’idea di sviluppo materiale e immateriale del territorio. Tale protagonismo civico, inedito per la città prima del sisma, quasi da subito è stato caratterizzato più dalla capacità di trovare volta per volta un avversario che dalla solidità di una strutturazione della rappresentanza, capace di dialogare da pari a pari, e autonomamente, con le Istituzioni e con le singole forze politiche. A quella stagione ne è seguita una di ripiegamento, in parte per ragioni connaturate anche ai diversi interessi materiali, incarnati nelle diverse anime del movimento, ed in parte per il conflitto scatenato dalla politica che s’è sentita espropriata da queste forme di democrazia diretta e partecipata, e le ha combattute, con la repressione da un lato, e attraverso processi sotterranei o espliciti di cooptazione, dall’altro. La città, oggi, non ha più alcuna eredità visibile e influente di quella stagione, salvo una individuale presenza in Consiglio Comunale attraverso una Lista Civica che esplicitamente si è richiamata a quella esperienza, ed un presidio occupato, in un’area dell’ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio.

Gran parte del futuro della città si gioca sulle prospettive per i suoi giovani. Forse, molte occasioni sono già state irrimediabilmente perdute. Ma non si dovrebbe rinunciare all’idea, ancor oggi, che la massa di risorse che la città sta ricevendo dalla comunità nazionale, per ricostruirsi, sia spesa anche per far germogliare nuove opportunità stabili, strutturali, magari anche inattese, che connotino la città in un quadro europeo almeno. L’Aquila, non dovrebbe restar chiusa tra le sue montagne: dovrebbe essere capace di scalarle, per liberare lo sguardo verso l’Adriatico e il Tirreno, e oltre le Alpi, mantenendo il suo tratto antico di rapporto con il Mezzogiorno, segnato dal passo dei tratturi della Transumanza. Per questo resta decisivo rompere l’isolamento della città, dotandola di un reale attraversamento autostradale Tirreno-Adriatico, concludendo l’autostrada che parte da Roma, con l’allaccio alla A14, non lasciandola interrotta a Teramo come è oggi. Così come sarebbe necessario puntare ad un collegamento veloce su rotaia con Roma, ma anche con Napoli attraverso Sulmona, e alla strutturazione di forme di governo comune del territorio, in tutta l’area dell’Appennino Centrale, che vive problematiche comuni e che potrebbe avere opportunità positive scegliendo soluzioni condivise.

Sindacato e Imprese, invece, hanno inseguito, nella fase immediata del post sisma, una fantomatica Zona Franca Urbana che, secondo la Legge per la Ricostruzione della città del 2009, avrebbe dovuto rilanciare l’economia e l’occupazione a L’Aquila, senza neppure accorgersi della totale inadeguatezza e sfasatura dimensionale della misura (che era stata pensata dall’Europa per quartieri di aree urbane ad elevato disagio sociale), che infatti non ha dato risultati. Non vi è stata alcuna attività vertenziale specifica, significativa, da parte delle Organizzazioni Sindacali, e capace di mobilitare e rappresentare la popolazione, per affrontare il complesso delle questioni legate alla ricostruzione, se si eccettua il tentativo di declinare, in termini locali, le mobilitazioni nazionali o la riproposizione, sul cratere del sisma, di Protocolli d’Intesa, sperimentati altrove, per il rispetto della Legalità e dei Contratti, nel settore dell’Edilizia. In questo senso, vi sono risultati contraddittori; positivi sino ad ora sul piano della prevenzione degli infortuni, quando invece i cantieri sono caratterizzati da forme generalizzate di elusione dagli obblighi contrattuali; partendo dall’inquadramento dei Lavoratori, quasi tutti classificati come manovali edili nei livelli più bassi dei contratti, passando per i falsi part-time e finendo con un sistema diffuso di neo partite IVA, che nascondono subappalti oltre i limiti di Legge, e lavoro a cottimo.

Nonostante gli innumerevoli convegni e i documenti sottoscritti e le Piattaforme rivendicative scritte, nella realtà è totalmente mancata, e manca, una idea condivisa di futuro per la città, capace di veicolare azioni strategiche, coordinate ad ogni livello, per inserire L’Aquila in un circuito europeo di città, di media dimensione, innovative e sostenibili. Per porre a fattor comune le tanti iniziative lodevoli, ma isolate, che in ogni campo si sono affacciate in città in questi anni. Il vero “capitale fisso”, da impegnare per la competitività di L’Aquila, che non ha mai avuto massa critica in alcun settore, è il suo intero sistema territoriale, col suo ambiente che non dovrebbe essere degradato ma caratterizzato dall’uso di tecnologie a risparmio energetico e intelligenti in ogni campo; capace di coniugare bellezza e storia con la ricerca e di sviluppare e mettere in relazione positiva e dinamica tra loro le intelligenze e i saperi diffusamente presenti, anche sul piano artistico e culturale. Una città “connessa”, dentro un nodo di reti materiali e immateriali sulla frontiera delle tecnologie. Sarebbe doverosa un’azione mirata a consolidare il patrimonio di pratiche e progettualità e tecnologie poste in essere nell’intervento sul patrimonio edilizio storico e di rilievo artistico, perché sia esportato dalle imprese del territorio in interventi di prevenzione auspicabili e oggetto magari di specifici programmi di finanziamento nazionale ed europeo, per l’intero Appennino almeno, e per il suo fragile edificato, patrimonio identitario dell’intero Paese, ma a forte rischio sismico ed idrogeologico. Ma l’Assessorato alla Cultura del Comune di L’Aquila, con la sua attuale Giunta di Destra, s’occupa di carri di Carnevale, ad esempio, o di luminarie natalizie, a sottolineare la passione provinciale per tutto quanto non abbia a che fare con il progresso della Città. Le massime espressioni sportive della città che, nel calcio e soprattutto nel rugby, avevano raggiunto traguardi di assoluto rilievo in campo nazionale, militano mestamente nelle serie minori, senza reali supporti finanziari, senza nessuna relazione di rilievo col sistema delle imprese intervenute per la ricostruzione della città e senza vere prospettive di futuro. Mentre la città è stata disseminata di palazzetti dello sport, e di impianti sportivi, oggetto di donazione anche da paesi stranieri, senza che per nessuno di essi possa essere data una forma di gestione, pubblica o privata, economicamente sostenibile.

La misura di sostegno all’economia, individuata infine dal Governo di Centrosinistra, dopo un percorso di concertazione che ha tenuto insieme Parti Sociali, Enti Locali, Associazioni Professionali, Università, è stata quella di destinare, tramite delibere CIPE, a specifici progetti d’intervento, sull’intero cratere colpito dal sisma, e sull’economia regionale, il 4% del totale dei fondi erogati per la ricostruzione. Una misura che il Territorio ha però interpretato come una nuova forma deresponsabilizzante d’intervento straordinario a fondo perduto; andando a ripianare i debiti dell’Azienda municipalizzata locale che si occupa delle funivie del Gran Sasso, tra l’altro. Sono stati sostenuti progetti di Grandi Imprese, che comunque sarebbero stati posti in essere, e che non hanno prodotto incrementi occupazionali (forse qualche stabilizzazione di rapporti precari già esistenti), ed è stato varato uno specifico programma di incentivazione al reinsediamento di attività nel Centro Storico di L’Aquila, che ha avuto, quale sostanziale risultato, il sostegno alla rendita improduttiva dei proprietari di abitazioni ed edifici, che hanno potuto mantenere, per questa via, innaturalmente alti gli affitti degli immobili.

E’ emerso in città il settore dei call center in outsourcing che occupa oggi stabilmente oltre il migliaio di persone (e quasi altrettante in forma precaria), anche grazie alla dinamica innescata dalla positiva soluzione industriale e occupazionale che il Sindacato è stato capace di dare alla chiusura, decisa a causa del terremoto, dell’unica azienda allora presente a L’Aquila. Pare, oggi, quasi capace di sostituire in termini sociali e dimensionali quello che rappresentava l’industria, anche per la massiccia presenza di occupazione femminile, generando però inedite contraddizioni, date dai salari, bassi in genere, anche per l’uso diffuso del part-time e dalla sottoutilizzazione delle risorse di conoscenza del territorio, per l’esplosivo contrasto tra professionalità richieste, tutto sommato non alte, e titoli di studio degli occupati, che sono come minimo diplomati, con una larga presenza di laureati. Il settore è in sé strutturalmente fragile, per la scarsa propensione delle imprese all’innovazione tecnologica e per l’esposizione di ogni singola azienda ad una concorrenza, anche internazionale, tutta giocata sul costo del lavoro, senza che vi siano regole davvero cogenti di tutela dei diritti e dell’occupazione, nel susseguirsi di appalti e subappalti che lo caratterizzano. Restano un presidio forte le aziende del settore Chimico-Farmaceutico e quelle dell’elettronica per lo Spazio e per le Telecomunicazioni della Difesa, che hanno superato i processi di riorganizzazione degli anni passati. Così come, insieme all’Università, al Conservatorio, resta l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare del Gran Sasso e il Gran Sasso Science Institute, costituito dopo il sisma, ancora grazie all’impegno del Ministro Barca, a sottolineare la vocazione cittadina a scommettere sulla conoscenza, che meriterebbe molto più che il sostegno spesso proclamato, solo a parole, da politica ed istituzioni. Così come un punto di forza del Territorio appare essere, nonostante la grande difficoltà del vivere quotidiano, la volontà dei cittadini a non abbandonare L’Aquila, a non andar via, che non è inerzia ma scelta identitaria.

La città non riesce, però, a costruire una relazione positiva di integrazione con le sue frazioni e col suo bacino vasto di comuni minori, la cui crescita armonica, invece, sarebbe garanzia di progresso proprio per il capoluogo di regione. Né sono cessate tensioni tra il sistema imponente di Aree Protette e Parchi naturali che caratterizza la città di L’Aquila, oltre che la sua Provincia, in relazione diretta con le province vicine anche del Lazio e del Molise, e nuclei di interessi diversi che scaricano la frustrazione della crisi economica, e ricorrenti tentazioni speculative, sui vincoli di tutela del territorio, che non si trasformano mai in occasioni di crescita. Forse, la dinamica che ha investito la città col sisma può essere letta anche evidenziando i dati raccolti dal Centro per l’Impiego di L’Aquila, che serve l’area che va, più o meno, da Montereale a Capestrano, dove vivono circa 106.000 persone (Censimento Istat 2011), e che coincide sostanzialmente con il cratere del sisma del 6 aprile 2009. Occorre precisare, però, che il dato del 2018 è raccolto con criteri diversi da quello del 2009, poiché, ad esempio, nel 2009 era considerato disoccupato chi avesse meno di otto mesi di lavoro nell’anno ed entro una certa soglia di reddito; mentre nel 2018 occorre restare sotto la soglia dei sei mesi di lavoro, nell’anno, per essere considerato disoccupato. Questo implica che, se si raccogliessero i dati oggi con gli stessi criteri del 2009, essi vedrebbero numeri ancora più alti di quelli che già appaiono. Nel 2009 gli Iscritti al Centro per l’Impiego erano 16330, di essi 782 erano stranieri comunitari e 1264 erano stranieri extracomunitari: gli stranieri complessivamente, erano il 12,52% degli Iscritti totali. Nel 2018, gli Iscritti al Centro per l’Impiego di L’Aquila sono divenuti 23650, di essi 2271 sono stranieri comunitari e 2394 gli stranieri extracomunitari; complessivamente, gli stranieri Iscritti, rappresentano oggi il 19,72% degli Iscritti totali. Tra il 2009 e il 2018 il numero complessivo degli iscritti al Centro per l’Impiego è cresciuto di 7320 unità; una crescita di oltre il 44%, rispetto al dato di partenza (pur se le basi di riferimento sono diverse), che non può essere imputata integralmente a ragioni demografiche, ma che sconta invece una marcata tendenza migratoria alla quale gli stranieri concorrono con un incremento percentuale delle presenze di circa il 128% (per gli italiani l’incremento è del 33% circa), rispetto al dato di partenza. Il 50% circa degli Iscritti al Centro per l’Impiego è donna; nel 2009, lo era il 55% degli Iscritti.

I movimenti nel mercato del lavoro, per grandi agglomerati, consentono un confronto più omogeneo dei dati: nel 2009, all’inizio della crisi economica, gli avviamenti al lavoro, erano stati 17126; nel 2018 sono stati 25921, con un incremento percentuale del 51% circa, e mentre nel 2009 gli avviamenti al lavoro con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato erano 5022 (il 29 % circa del totale), nel 2018 sono stati di nuovo 5022 (che però ora rappresenta il 19 % del totale). E se si tiene conto del fatto che in edilizia, normalmente, si viene avviati al lavoro con un contratto di lavoro a tempo indeterminato, che non impedisce i licenziamenti per fine cantiere o quando a dicembre il maltempo rende quasi impossibile lavorare all’aperto, e se si considera la dimensione certo preponderante a L’Aquila del particolare mercato del lavoro edile, si può supporre che l’area della precarietà lavorativa interessi ormai quasi totalmente ogni assunzione che viene fatta. Nel 2009, le cessazioni dei rapporti di lavoro, ad ogni titolo, erano state 9775, segnando un saldo positivo per gli avviamenti, di 7351 unità; nel 2018 le cessazioni sono state 26154, segnando un saldo negativo di 233 unità (vale la pena qui, sottolineare che nel 2017 gli avviamenti al lavoro erano stati 35753, e le cessazioni 30778, con un saldo positivo a favore degli avviamenti, di 4975 unità).

Sembrerebbe quindi che, a L’Aquila, in un quadro grandemente accresciuto di disponibilità, e quindi di concorrenza tra soggetti deboli, i movimenti sul mercato del lavoro siano estremamente veloci; pronti a registrare quasi in tempo reale l’efficienza e l’efficacia, e la quantità, della spesa per la ricostruzione e sottolineando così, anche per questa via, l’avvenuta trasformazione del lavoro, e dei Lavoratori, in una merce al pari delle altre, della quale ci si approvvigiona quando serve e che si dismette, senza alcun problema, appena un attimo prima che rischi di generare qualche appesantimento nei conti aziendali. In questi dieci anni la peculiare declinazione italiana della “flessibilità”, a L’Aquila, mostra sia una pressione migratoria, di italiani e di stranieri, che col compiersi dei processi di ricostruzione si allenterà in larga parte, generando nuove problematiche a cui oggi non ci si prepara (dal decremento del numero degli alunni, allo svuotarsi di strutture ricettive per il vitto e per l’alloggio, ad esempio), che un’inedita impossibilità a pensare le proprie vite in termini di progetto, travolti come si è dall’alternarsi di contratti a termine, in varie forme, e periodi di disoccupazione, in una città dai marcati tratti di alienazione urbana.

Avrei voluto che L’Aquila fosse riuscita ad individuare un luogo, nel suo territorio comunale, dove piantare 309 alberi, perché fosse possibile un ricordo vivente delle vittime del sisma del 6 aprile 2009. E’ in corso invece una procedura che individui un possibile “monumento ai caduti”: perché ancora L’Aquila non ha trovato il modo di dare una strutturazione degna al lutto e alla memoria; ma io non penso che un cippo di cemento possa essere il modo migliore per ricordarci che la vita deve convivere con una natura che ha i suoi ritmi, e le sue scosse; per stimolarci ad essere migliori, quando vogliamo provare a prevenire disastri naturali, che sono probabili anche nel futuro, e che ci permetta di sognare che la vita delle vittime possa essere condotta oltre i limiti del tempo. Forse, per ricordare e onorare davvero le vittime del terremoto aquilano, che erano italiane e straniere, giovani e adulte, bambine e anziane, sarebbe importante provare ad essere migliori, come comunità. Ma per davvero!


02 Aprile 2019

Categoria : Attualità
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