Il nuovo libro di Giulia Caminito, Un giorno verrà: storia, memoria, narrazione


di Gianfranco Giustizieri -
Storia, memoria e narrazione costituiscono tre categorie che hanno dato vita a connessioni in opere letterarie e cinematografiche rivelatesi grandi nel nostro ‘900. Gli esempi di scrittura, denominata anche superficialmente “romanzo storico”, non mancano: da Primo Levi a Ignazio Silone, da Elsa Morante a Maria Bellonci, da Mario Pomilio a Laudomia Bonanni … Poi il cinema neorealista con le pellicole di Rossellini, De Sica, Germi, Lattuada, ecc. in cui eroi senza volto, invisibili cancellati dalla Storia, protagonisti abbandonati dalla memoria, ultimi lasciati nel silenzio del tempo sono stati portati all’attenzione degli spettatori e ripresi da alcune tendenze della cinematografia contemporanea.
Questi brevi riferimenti sono stati i primi richiami avuti dall’iniziale approccio con il secondo romanzo di Giulia Caminito, Un giorno verrà, Giunti/Bompiani Edizioni, 2019.

La Caminito è tra le più promettenti giovani scrittrici italiane. Laureata in Filosofia politica, ha esordito nel 2016 con il romanzo La Grande A (Giunti edizioni) per il quale ha avuto il Premio Bagutta opera prima, il Premio Giuseppe Berto e il Brancati giovani. Successivamente ha pubblicato la raccolta di racconti Guardavamo gli altri ballare il tango (Elliot Edizioni, 2017) e la fiaba La ballerina e il marinaio (Orecchio Acerbo, 2018).

Un giorno verrà ripercorre i luoghi d’infanzia della scrittrice nella provincia marchigiana e narra la storia di Luigi Ceresa, fornaio nel borgo di Serra de’ Conti e della sua famiglia all’inizio del XX secolo. Una narrazione che s’intreccia con le idee socialiste e anarchiche del primo ‘900 italiano, la Settimana Rossa del ‘14 ad Ancona, la Grande Guerra con storie vere dei ragazzi del ’99, la straordinaria vita di Suor Clara e del suo Monastero di Serra, l’epidemia di Spagnola e altro ancora. La scrittrice si avvale di una rigorosa documentazione rintracciata nell’ex Convento di Serra de’ Conti divenuto ora Museo, nell’Archivio anarchico di Fano, in schedari di Polizia e in antiche biografie del tempo reperite secondo i luoghi.

Questo intreccio, in cui la Storia costituisce la cornice e al suo interno prende corpo e vita il percorso della memoria e la tessitura narrativa, ci ha condotto alla prima riflessione. Dai luoghi natii rivisitati dall’autrice, come lei stessa confessa nella sua Nota ricordando il suo bisnonno Nicola Ugolini, “[…] anarchico, mai battezzato, che sposò la moglie solo in punta di morte, quando la Spagnola l’aveva ormai mangiata viva, per poi partire e lasciare l’Italia, perdersi, forse in Germania. […]”, alla molteplicità di personaggi senza volto con i ragazzi del ’99 fatti a pezzi dalle bombe, agli anarchici della Settimana Rossa considerati matti da uno Stato bugiardo, ai Serrani ribelli alla volontà del Vescovo. Infine l’invito della Caminito, nella Nota di chiusura, a non credere a tutto ciò che ha scritto: “[…] Nonostante lo studio e la dedizione, la raccolta di testi, i sopralluoghi, qui dentro ci sono solo alcune verità, ma anche tante menzogne [...]”, scrittura creativa che investe i personaggi e che ci consegna un bel romanzo.

Il percorso di lettura inizia dal titolo, un messaggio quasi profetico strillato da una copertina come pagina di quotidiano, Un giorno verrà: enunciazione affermativa che va al di là del libro, si spinge in un tempo indeterminato oltre il narrato, un grido che richiama l’attenzione, un urlo di minaccia o di giustizia riparatrice forse umana o divina verso coloro che sono i reietti, i più dimenticati, una sospensione temporale tra un oggi e un domani. Un titolo che racchiude anche l’intero capitolo di un drammatico incontro tra due personaggi, Don Agostino il parroco e suor Clara, l’ex schiava sudanese Zeinab Alif, poi divenuta suor Maria Giuseppina Benvenuti e quindi abbadessa del convento di clausura di Serra, chiamata la Moretta. Uno scontro feroce, rivelatore di stupro, di prevaricazione, di violenza e indifferenza morale che termina con: “[…]. Andate ora Don Agostino, e ricordate che il giudizio di Dio un giorno verrà. […]”.
E il giudizio di Dio sembra divenire fatto umano, sollevazione popolare contro tutte le ingiustizie quando gli abitanti di Serra si ribellano al trasferimento delle suore imposto dal Vescovo: “[…]. Lanciarono sassi sui mariti morti e i figli dispersi, sui campi dei mezzadri abbandonati, sui signori che chiedevano raccolti anche in tempo di guerra, sulle razioni di cibo sempre più scarso, sui bambini malnutriti, sulle notizie dal fronte che non arrivavano mai, sulle malattie che li stavano colpendo, stanchi, distrutti, dimagriti, senza forze per rispondere alle scelleratezze del mondo. […]”. Urlo umano contro la loro storia, metafora che tutto comprende.

Ma Un giorno verrà non è solo l’avvento cattolico nella minaccia punitiva di un Salvatore o nella ribellione dei Serrani. È anche fede politica nella sollevazione anarchica e socialista a Villa Rossa contro l’Autorità: “[…]. Fecero il loro comizio, più di cinquecento persone si radunarono alla Villa, a dire no alla parata delle bugie, della messa in scena, del teatrino, la festa dello Statuto, della concessione che il Re, dall’alto della sua infinita grazia, con i suoi gioielli, le sue corone, le sue principesse, le sue tavole col capretto arrosto e i dolcetti glassati, aveva donato a loro, i miserabili. Malatesta parlò […] di tutti quelli che per i loro atti sovversivi erano stati chiamati matti, nascosti, rinchiusi, ma senza diventare martiri, dovevano essere considerati incapaci di intendere e di volere, proprio loro, i portatori di volontà. […]”.
Matti e sovversivi fautori della non violenza, ribelli all’Autorità che portava la guerra, la sopraffazione delle convenienze sociali: “L’Autorità […] che volge i suoi vantaggi a profitto speciale di una data classe che sfrutta ed opprime le altre […]: quando viene la lotta intestina e la collettività si divide in vincitori e vinti, allora sorge l’Autorità, la quale naturalmente è devoluta ai più forti e scava a confermare perpetuare e ingrandire la loro vittoria” così Errico Malatesta scriveva in un articolo sul settimanale socialista-anarchico L’agitazione nel lontano 1897.
Un giorno verrà, per volontà divina, per sollevazione dei più miserabili della Storia al fine di una società più giusta, chissà!

E ancora altri protagonisti dimenticati dalla memoria, diremmo noi, uomini e donne che vissero la tragedia di un conflitto non voluto, come quei ragazzi del ’99 a cui la Caminito ridona visibilità. Inviati a colmare i vuoti lasciati tra le file dell’esercito dopo Caporetto, molti ancora diciassettenni, conobbero sulle loro carni il significato della guerra : “[…]. Sono matti a mandarvi in prima senza maschere, appena buttano il gas siete tutti morti, disse un soldato più adulto tra quelli che incontrarono. Loro venivano guardati come agnellini, pollame da sacrificio, conigli da bivacco nel bosco. […], loro che erano giovani e forti e servivano a ridare vigore a un esercito che era stato schiacciato […]. Siete qui per l’Italia, ripetevano, siete qui per la Calabria e la Sicilia, la Liguria e la Basilicata […], siete qui per il Re. […]. Tutti i corpi vanno seppelliti […] anche quelli fatti a pezzi, perché ogni pezzo doveva essere benedetto […] ossa sparse, soprattutto sangue e tutto quello che dal corpo non sarebbe mai dovuto uscire […]”.
Dalle pagine della Caminito riecheggia la posizione dominante di una minoranza interventista, rappresentativa, fragorosa, fatta propria da uno Stato silente, pavido e considerato bugiardo ma pronto a sacrificare la sua migliore gioventù per la vittoria finale come l’orazione guerresca dannunziana interpretò con Alle reclute del 1899.
Scrittura forte, significativa, utopica per un messaggio lontano: Un giorno verrà.

Poi i personaggi: molti, incisi dalla penna nelle pagine della scrittura. Luigi Cerasa, Violante, Adelaide, Lupo e Nicola, Antonio, Nella, l’anarchico Giuseppe, tutti della stessa famiglia e Cane, cucciolo di lupo, addomesticato come un cane. Quindi Don Agostino parroco di Serra e suicida per rimorso e suor Clara appellata la Moretta. Più lontani ma anche essi determinanti per la narrazione, le famiglie dei contadini con i loro frutteti e le loro vigne, le suore del convento, i soldatini con il cappellano benedicente, i socialisti e gli anarchici con quel Masetti dichiarato pazzo e ribelle, con Gaspare e Nello Budini sparato in faccia e Virginia l’amante anarchica di Lupo, forse ripresa dalla vita vera, pronta a partire per terre lontane perché “[…] qui non posso scrivere e non posso parlare e ci sono parti del mondo dalle quali possiamo ancora farci sentire, luoghi in cui sono nate colonie, gruppi, comunità, e noi le dobbiamo legittimare, aiutare a crescere. […]”.
Un giorno verrà in cui spunterà il sole dell’anarchia, senza oppressi ed oppressori, per dare il tempo di attuazione di ciò che appaiono illusioni, secondo Virginia personaggio quasi nascosto ma interprete reale del titolo del libro. Infine dentro il romanzo lampi di luce per alcuni protagonisti della nostra Storia: Errico Malatesta, Armando Borghi, Benito Mussolini.

Nel romanzo corale che si avvale nella finzione narrativa di tanti personaggi frammentati e sparsi nelle oltre duecento pagine lontani da richiami di fiction televisive, scolpiti nel tempo della storia del primo ventennio del nostro ‘900, non si può tralasciare la creazione di coloro che sono i veri protagonisti del romanzo: Nicola, Lupo e la Moretta.
Nicola potrebbe essere il personaggio debole della narrazione, “[…] il ragazzo di mollica perché era il figlio del fornaio e perché era debole, non aveva crosta, se lasciato all’aria avrebbe fatto la muffa, non sarebbe stato buono per la zuppa o il pancotto, non sarebbe andato bene neanche per le galline […] quello che cade e ha paura, che ha la testa bacata e le mani che tremano, quello che guarda la nuca di Lupo ondeggiare mentre scende per le strade del paese. […]”. Ma Nicola ama la lettura e la scrittura, cresce poco a poco all’ombra del fratello, prende coraggio nel momento del bisogno, costretto a partire per la Grande Guerra stacca i brandelli di carne dalle rocce e raccoglie i resti dei corpi, minaccia il prete che non vuole avvicinarsi alla madre morente per la Spagnola, “[…]. Un estraneo armato di dinamite, […]” sembrò a Lupo nel momento del ritrovamento e dell’incontro, un Nicola sconosciuto e completamente diverso, l’unico ad affrontare la morte nelle case in un paese ormai quasi deserto per la Spagnola, il solo ad avere il riconoscimento fraterno di essere uomo.
Lupo è complementare a Nicola. Animale d’istinto, in simbiosi con il suo nome e la natura, libero senza catene, contadino per necessità, ribelle fino alla vendetta, coerente in ogni scelta, appartiene a quel genere di uomini impossibili da contenere. Legato da un affetto profondo al fratello a cui aveva affidato la speranza di un futuro migliore, è l’erede morale del nonno Giuseppe anarchico famoso e conosciuto. Partecipa in prima linea alla lotta necessaria ma spesso smarrito non riesce a capire, solo Virginia gli illumina la meta: “[…]. Continuare a resistere, non farsi corrompere, mantenersi vigili, unirsi ai propri simili, informarsi, arrabbiarsi, esserci, […]. E Lupo partirà per nuove terre dove, forse, il sole spunterà.
Infine la Moretta. Vita avventurosa che le tempra il carattere fino ad approdare al convento di cui diverrà l’abbadessa. Avverte la sacralità della sua missione, coniuga la fede con il coraggio, madre delle sue suore, riferimento sicuro di una popolazione, ferma nell’opposizione al potere ecclesiale, quasi santificata dopo la morte da coloro che: “[…]. Erano venuti i vescovi, erano venuti i preti, era arrivata persino una lettera dal Vaticano, al funerale erano accorsi quelli che prima si erano tenuti ben lontani. Suor Clara, di certo avrebbe riso sprezzante guardando la sfilata di cortesia, le preghiere di facciata, lo sfruscio di vesti impolverate, lei che mai aveva voluto prendere parte alla loro parata al corteo delle loro eminenze, che sempre li aveva occhieggiati con pietà e sospetto. […]”.

Così il libro ha la sua fine. Costruito con pagine aperte a frequenti flashback che interrompono l’idea di romanzo come saga familiare per offrire memoria di frammenti di Storia, la Caminito utilizza un linguaggio privo di uno stile ridondante, spesso con parole dure essenziali feroci, metaforico per la resa delle idee, prospettico nella visione del futuro e molto personale nell’impostazione del discorso diretto.
Romanzo puro? Certo che no, ma sicuramente un ottimo intreccio di generi che conferma la vocazione alla scrittura dell’autrice e risponde alle migliori attese del pubblico dei lettori.


01 Aprile 2019

Categoria : Recensioni Libri
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