Il poeta non si stanca
(di Carlo Di Stanislao) – Geraldina Colotti, redattrice de “Il manifesto” e di Le Monde Diplomatique, è una delle scrittrici italiane più originali e stimolanti di questi ultimissimi anni. Nata a Ventimiglia, ha scontato una condanna a ventisette anni di carcere per la sua militanza nelle Brigate Rosse. Ha fatto parte delle UCC, la seconda “posizione” della BR. Coinvolta nelle indagini relative all’uccisione del generale Licio Giorgieri (20 marzo 1987), con Francesco Maietta, Claudia Gioia, Maurizio Locusta, Paolo Cassetta, Daniele Mennella, Claudio Nasti e Fabrizio Melario, fu arrestata e condannata. Ha esordito con una raccolta di versi, Versi cancellati, nel 1996, poi un’altra raccolta: Sparge rosas (2000) e, successivamente, due bei romanzi, Certificato di esistenza in vita (2005); Il segreto (2003) e infine, con Vauro, il celebre Scuolabus (2002). Il suo ultimo libro è una nuova raccolta di poesie “La guardia è stanca”, chiaroscuri accennati, sottili e amare ironie, sprazzi di realtà abilmente accostati e tenuti insieme da un sottofondo appena accennato, ma che prepotentemente emerge alla lettura e che quindi cerca e trova un suo spazio ben definito: l’essere militante del poeta, la sua rabbia e onestà intellettuale, la sua vita messa a disposizione della nostra immaginazione, il suo impegno politico, per il quale ha pagato con il carcere, un prezzo reso alto dal potere che non conosce poesia, non ama le tinte forti e nemmeno i chiaroscuri dell’anima, ma vuol trasformare anche gli spazi vivi della ribellione interiore in celle anonime e fredde, come quelle delle prigioni. Nella raccolta i sogni e le utopie che sono stati anche quelli di un’intera generazione e che si nutrono ancora del sangue dei nostri giovani, di quello dei morti recenti così come di quello dei dimenticati. L’anima degli anni dannati e ribelli, terreno fertile per grandi cambiamenti e giuste rivendicazioni sociali. E nell’attesa del momento in cui “verrà il tempo della presa d’atto”, vale veramente la pena cogliere l’occasione che queste poesie offrono, per domandarsi, per capire, magari anche per imparare ad agire. In questa terza silloge poetica, Geraldina Colotti prosegue il suo originale percorso, confrontandosi ancora con l’universo accidentato della vita, dell’impegno e del disincanto. Dire poesia civile è riduttivo. Siamo all’incrocio fra i territori dell’io e quelli della storia. Siamo nel punto in cui la drasticità della scelta si ribalta nel grottesco della burla, e nell’amaro della solitudine. È una sorta di doppio gioco, evocato nell’esclamazione che dà titolo al libro. Stanco è il marinaio che, irridendo i notabili borghesi, chiude il parlamento russo decretando il sopravvento del potere bolscevico. Stanco è il militante del Novecento, perplesso e spaesato di fronte a un tempo cinicamente dimentico di classi, lotta e disciplina. In queste pagine, Geraldina Colotti conferma la sua ripugnanza per ogni genere di arroganza o vittimismo. I momenti più intensi, ancora una volta, sono quelli dedicati agli anni Settanta, alla lotta armata e al carcere. Ma l’Italia allucinata di oggi emerge con forza in brevi lampi di invettiva e di ironia. È uno spazio, quello del reale sfigurato, a cui l’io non può sottrarsi anche dettando i suoi verbali più intimi. A conti fatti, graffia la parola che mette in gioco se stessa nell’inventario sterminato del mondo. I territori dove si sogna e si lotta, l’America latina, la Palestina, l’Europa e la sua Storia, dai bolscevichi ai migranti, e l’amore, quello sognato e quello vissuto, i ricordi di bambina e le amarezze di donna: volendo accostare o provare a tracciare similitudini tra poesia ed espressione pittorica potremmo definire quest’ultima raccolta di Geraldina Colotti “macchiaiola” nel suo saper rendere magicamente tangibile lo spirito del Novecento tutto, grazie a versi brillanti e illuminanti come pennellate ad effetto. n la stessa immediatezza dell’esclamazione del comandante della guardia, Geraldina rintraccia le orme del passato nel presente, e limpidamente, con l’impegno che la contraddistingue, legge quel presente con crudezza e lucidità. Le poesie di Geraldina sono pietre, scogli di uno stretto, una zona di confine, un sottile interstizio posto tra personale e storia, una crepa che da queste stesse pietre viene smascherata: il confine non si vede più, è l’autrice ad aver tessuto e annodato la piazza che si sveglia alle proprie cicatrici di pietra.
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