IL TEATRO DELLE MASCHERE E IL CARNEVALE DELLA VITA
di Giuseppe Lalli -
C’è una frase, in un celebre romanzo di Luigi Pirandello, che suona così: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. Nelle società moderne il Carnevale è la festa di tutto l’anno: indossiamo la maschera tutti i giorni. Ognuno ha la sua, anzi le sue, da quando inizia l’età della…ragione. La maschera non ce la togliamo nemmeno quando andiamo a letto. Mostriamo il volto nudo solo nel sogno; ma al mattino, insieme al vestito, prima di fare colazione, rimettiamo la maschera sul volto.
Di maschere, per la verità, ne abbiamo a disposizione più di una, come i vestiti e le scarpe. Abbiamo la maschera per i colleghi di lavoro, quella per i conoscenti, quella per gli amici, e perfino quella per i familiari… Spesso sbagliamo maschera o dimentichiamo di indossarne una, e allora le persone che credevano di conoscerci ci dicono: “Ma che ti è successo? Non ti riconosco.” E invece era uno dei rari momenti in cui eravamo noi stessi… Ognuno crede di recitare la sua parte nel ruolo che si è ricavato, salvo, ogni tanto, cambiare ruolo e cambiare parte.
E’ una legge, e una tentazione, questa del Carnevale permanente, alla quale pare che nessuno possa sfuggire nelle nostre società evolute. Non vi sfuggiva nemmeno Pirandello, che pure pretendeva di farci la morale. Infatti, c’è da chiedersi: qual era il vero volto di Pirandello? Quello dell’esploratore spregiudicato dell’anima umana, o quello dell’intellettuale conformista fedele al regime? Quello del compassato e serioso accademico vincitore del premio Nobel, o quello dell’attempato maestro che perde la testa per la prima attrice del suo teatro e le scrive centinaia di lettere appassionate?
La vita sociale è il grande teatro dell’ipocrisia, che va in onda sul proscenio. Dietro le quinte, c’è il vero teatro: quello dell’invidia e dell’orgoglio. Ogni tanto si sente qualcuno che grida, perché non riesce più a reggere la parte. Per avere un’idea di quanto rarefatti siano i nostri rapporti sociali, basta riflettere su quella convezione sociale che è il saluto. Nel salutarci, quando ci conosciamo poco, assumiamo sempre un atteggiamento… commisurante. Ciascuno, rispetto all’altro, si chiede: «che ruolo svolge?»; «quanto mi può essere utile?»; «è più o meno importante di me?».
E una volta stabilite le misure, ci regoliamo. Siamo disposti a salutare noi per primi solo le persone che reputiamo molto più importanti di noi. E se qualcuno con il quale avevamo stabilito un saluto reciproco, una mattina, magari perché distratto, ci toglie il saluto, apriti cielo! Subito pensiamo: «e chi si crede di essere?»; «non facciamo un lavoro simile…»; «non abbiamo la stessa cilindrata di macchina…», e ce ne facciamo una malattia.
Nel grande teatro delle maschere, gli “altri” finiscono per essere per noi un piccolo inferno, come ci ricorda Jean Paul Sartre in una sua celebre commedia. Gli “altri” ci giudicano, e spesso ci feriscono con il solo sguardo. Abbiamo voglia a dire: «Io sono sempre me stesso». Senza volerlo ammettere, quasi sempre siamo quello che vogliamo che gli “altri” credano che siamo.
Ci facciamo amici importanti affinché gli “altri” credano che anche noi siamo importanti. Mentiamo continuamente a noi stessi. Indossiamo gli occhiali da sole anche quando non c’è il sole: li usiamo come una maschera, per poter guardare gli “altri” senza essere visti. Gli attori li indossano nei funerali, forse per non guardare in faccia la morte, con la quale non si può recitare.
Parliamo senza comunicare: sguazziamo sempre alla superficie del nostro “io”, dove ristagnano poltiglia e rottami dell’anima. D’altra parte, degli “altri” non possiamo fare a meno, perché, per quanto possiamo coltivare un sogno di autosufficienza, siamo per costituzione degli animali sociali. Lo sapevano bene gli eremiti del passato, che più si ritiravano in solitudine, più gli “altri” li cercavano.
Capita però spesso che, quando accantoniamo la maschera, ci rendiamo conto che al fondo del nostro essere coltiviamo un desiderio metafisico, che non vogliamo confessare a noi stessi: dare un senso alla vita. Una volta che abbiamo mangiato e bevuto. I cattivi maestri della modernità, nel decretare la morte di Dio, ci hanno voluto far credere che ciascuno di noi può essere Dio per gli altri. Ma, per poco che rientriamo in noi stessi, ci accorgiamo di quanto grande sia questa menzogna.
In questo modo, il desiderio metafisico, che non possiamo sopprimere, diventa un piccolo inferno, che però dobbiamo nascondere agli “altri”, i quali devono continuare a vederci come tanti “Dio”: ciascuno vuole essere “Dio” per l’“altro”. Da qui la fiera dello snobismo: vogliamo far credere, ciascuno all’“altro”, di essere autosufficienti, di non avere bisogno di nessuno. Ma è proprio in questa mancanza di comunione, in questa forzata solitudine, che consiste il nostro piccolo inferno.
Ma quello che Pirandello e Sartre non sapevano, o forse non ricordavano, è che dopo il Carnevale viene la Quaresima. Ho sempre sospettato che i cristiani debbano conoscere la medicina per questo male metafisico. Dovrebbero averla appresa dal loro maestro, il quale si ritirò per quaranta giorni nel deserto (da qui la Quaresima) per meditare sul senso profondo della sua missione, e alla fine respinse tutte le maschere che un grande esperto di menzogne gli offriva: il potere sugli uomini e sulla natura. Solo una maschera accettò, non dal padre della menzogna, ma da suo Padre: quella del dolore e della compassione, come unica via di accesso alla vita vera.
Ecco: i cristiani dovrebbero conoscere la medicina. Solo che il più delle volte non sanno comunicarla agli… “altri”, non sanno rinunciare, nemmeno loro, alla maschera. I veri cristiani però sanno che Dio non si dimostra, si mostra: è quello che sta appeso, nudo, per tutti, sulla croce.
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