L’omelia del cardinale Petrocchi


L’Aquila – Ecco il testo dell’omelia del neo cardinale vescovo dell’Aquila Giuseppe Petrocchi letta questa sera a Collemaggio: “Saluto con viva cordialità, le Autorità civili e militari; ringrazio i Confratelli Vescovi che partecipano a questa celebrazione; benedico, con sentita gratitudine, i Sacerdoti, i Diaconi, i Religiosi e le Religiose che animano questa assemblea; e abbraccio tutti voi, carissimi Fedeli, con affettopaterno.

​Così, Papa Francesco, tratteggia la fisionomia spirituale e ministeriale dei Cardinali: «il Cardinalato non significa una promozione, né un onore, né una decorazione; semplicemente è un servizio che esige di ampliare lo sguardo e allargare il cuore. E, benché sembri un paradosso, questo poter guardare più lontano e amare più universalmente con maggiore intensità si può acquistare solamente seguendo la stessa via del Signore: la via dell’abbassamento e dell’umiltà, prendendo forma di servitore (cfr Fil 2,5-8)»

In questo orizzonte evangelico, condivido pienamente l’immagine – riportata in un testo di spiritualità – che raffigura la Chiesa come una “piramide rovesciata”. Si tratta, cioè, di una struttura “capovolta” rispetto alla usuale prospettiva “mondana”, contrassegnata, spesso, da una sovrapposizione di strati sociali, diversificati dal grado di potere, prestigio e ricchezza che detengono. Come è noto, la piramide si assottiglia mano a mano che si sale verso l’apice, determinando così una organizzazione elitaria. Chi sta più “su” di livello, domina sulle classi inferiori e cerca di renderle funzionali ai propri interessi.

Nella Chiesa, invece, deve avvenire il contrario: chi più si avvicina al “vertice”, che è orientato verso il basso, tanto più cala di livello: si vive il paradosso che vede, in senso cristiano, il ribaltamento nel contrario (la “dialettica evangelica degli opposti”), per cui salire equivale a discendere, governare vuol dire servire, l’arricchirsi coincide con il diventare povero, e l’essere “primi” comporta il farsi “ultimi” (cfr. Mc 9, 35-45). Inoltre, sulla punta della piramide rovesciata, si scarica il peso dell’intera struttura, mentre, nell’altro assetto, quello mondano, il peso delle classi superiori grava sulla base.

Questo dinamismo di progressivo “abbassamento”, per amare tutti e di più, nella Chiesa non è accessorio ma costitutivo, perché riflette l’itinerario percorso dal Signore, Verbo-fatto-carne, il Quale, come si legge nella Lettera ai Filippesi: «non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo e diventando simile agli uomini».

E tale approdo antropologico non rappresenta la fase conclusiva del Suo movimento di “kenosi” (=annientamento), perché «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil. 2, 6-8).

Il Vangelo, su questo tema, è perentorio: non lascia porte di fugainterpretativa, né consente forme artificiali di autogiustificazione. Chi vuole seguire Gesù deve imitarLo, nel gesto di chinarsi per lavare i piedi al suo prossimo. Egli stesso, infatti, ci ha esortato: «vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13, 5). Chi riveste un’autorità, nella comunità cristiana, ha l’obbligo di servire di più; la dedizione, fino al dono della vita, deve essere direttamente proporzionale all’incarico di governo ricevuto. «A chiunque fu dato molto, molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più» (Lc 12, 48), afferma il Vangelo di Luca.

Ecco perché il Papa, rivolgendosi ai Cardinali, ha parlato di “primato diaconale” (diakonos, in greco, = servo) «rimandando subito all’immagine diletta di San Gregorio Magno del Servus servorum Dei». Ed harecentemente aggiunto: «nessuno di noi deve sentirsi “superiore” ad alcuno. Nessuno di noi deve guardare gli altri dall’alto in basso. Possiamo guardare così una persona solo quando la aiutiamo ad alzarsi».

Entrare a far parte del Collegio cardinalizio significa partecipare, più da vicino, al ministero svolto dal successore di Pietro a servizio della Chiesa universale, come di tutte le Chiese particolari: «si tratta di una grave responsabilità, ma anche di un dono speciale, che con il passare del tempo va sviluppando un legame affettivo con il Papa, di interiore confidenza, un naturale idem sentire, che è ben espresso proprio dalla parola “fedeltà”». Questo esige di essere pienamente sintonizzati e sincronizzati sul pensiero e sulla volontà del Papa, in modo da essere “ponti” affidabili che favoriscono il “transito comunionale” nelle due direzioni di marcia: dal Papa verso le periferie e dalle periferie verso il Papa. È tale spirito di sinodalità che consente di «cogliere le istanze, le domande, le richieste, le grida, le gioie e le lacrime delle Chiese e del mondo in modo da trasmetterle al Vescovo di Roma al fine di permettergli di svolgere più efficacemente il suo compito e la sua missione di “principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fede e di comunione”».

Scrutando da questo osservatorio, mi sembra che la vocazione primaria del Collegio cardinalizio sia quella di costituire un “presidio di unità” attorno al Papa, garantendo al Successore di Pietro, la piena comunione: in tutto, nonostante tutto, sopra tutto.

Infatti, la Chiesa, nella sua identità e missione, è “koinonìa”(=comunione): essendo popolo radunato nell’unità del Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo (cfr. LG, n.4). La Chiesa, proprio perché è partecipazione, per grazia, alla Famiglia trinitaria, vive “di” comunione e “per” la comunione; è costituita e inviata come «sacramento universale di salvezza» (LG, n. 48). Essa opera, già sulla terra, secondo le regole che vigono in Cielo: anche se in forma non compiuta e ancora imperfetta. Per questo è stata giustamente definita «mistero di comunione trinitaria, in tensione missionaria (PdV, n. 12).

Se le viene sottratto l’ossigeno spirituale della comunione, rischia di morire di asfissia: di conseguenza, dove si registra una carenza nella carità reciproca, lì la comunità soffre di “asma” pastorale e non riesce a svolgere con efficacia il compito che le è assegnato.

Va detto con chiarezza che nella Chiesa non manca la comunione perché ci sono i problemi, ma ci sono i problemi perché manca la comunione. Le difficoltà, infatti, diventano patologiche quando si infettano con i virus degliegoismi, provocando divisioni e polemiche. Dove, invece, le difficoltà vengono vissute nella carità fraterna, esse si trasformano in sfide da soffrire bene e da superare insieme: così si cambiano in risorse che produconomaturità evangelica e moltiplicano la spinta missionaria. La storia dimostra che la persecuzione, condotta da “fuori”, non indebolisce la Chiesa, anzi la rafforza. Mentre l’attentato alla sua unità, sferrato dall’interno, può rivelarsi micidiale.

La comunione è fondata su tre doni di Dio, che continuamentepulsano nel cuore della Chiesa: la Parola, la Pasqua, la Pentecoste.

Sulla Parola accolta, vissuta e donata si costruisce il “Noi-Chiesa”. Infatti, è la Parola condivisa il “filo divino” che consente di tessere la fraternità cristiana. E è la comunione – effettiva e affettiva – il “tessuto” evangelico con il quale gli uomini di Chiesa debbono rivestire il loro modo di pensare, di sentire e di agire. La Chiesa, inoltre, proprio perché costitutivamente chiamata a vivere e comunicare la Buona Novella, «non solo fa, ma è l’evangelizzazione: se per assurdo la Chiesa smettesse di evangelizzare (…), cesserebbe all’istante di essere Chiesa». Ma – come hanno scritto i Vescovi italiani – va pure rimarcato che «solo una Chiesa comunione può essere soggetto credibile della evangelizzazione».

La Pasqua è l’ evento centrale nella storia della salvezza: è accaduto, “una volta per sempre” (cfr. Eb. 10,12), sul Golgota, ma si riattua nella Chiesa, in ogni spazio e in tutti i tempi. In particolare, la Pasqua, rinnovata nella eucaristia, costituisce la fonte e il culmine della vita e della missione della Comunità credente. È la partecipazione alla Pasqua che dona la forza per vivere la carità che «tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta»(1Cor 13, 7). A questo tema papa Francesco si aggancia quando afferma: «proprio in questo supplemento di oblatività gratuita consiste la santità di un cardinale. Pertanto, amiamo coloro che ci sono ostili; benediciamo chi sparla di noi; salutiamo con un sorriso chi forse non lo merita; non aspiriamo a farci valere, ma opponiamo la mitezza alla prepotenza; dimentichiamo le umiliazioni subite. Lasciamoci sempre guidare dallo Spirito di Cristo, che ha sacrificato sé stesso sulla croce, perché possiamo essere “canali” in cui scorre la sua carità».

A Pentecoste, «lo Spirito fa uscire gli Apostoli da se stessi e li trasforma in annunciatori delle grandezze di Dio, che ciascuno incomincia a comprendere nella propria lingua. Lo Spirito Santo, inoltre, infonde la forza per annunciare la novità del Vangelo con audacia (parresia), a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente» (EG, n. 259).

Lo Spirito Santo – Sorgente infinita di Verità e di Amore – è come l’Anima nella Chiesa: è il Principio generativo dell’essere e dell’agire della Comunità cristiana. Egli imprime il segno dell’unità, dove è accolto con disponibilità incondizionata e prontezza all’obbedienza. È Lui che rende un “cuor solo” i discepoli del Signore (cfr. At 5,32 ), come pure li fa capaci di essere lievito di coesione e di giustizia nel mondo.

In tale ottica, i Cardinali dovrebbero essere instancabili costruttori di pace, promuovendo il dialogo ecumenico ed interreligioso, come pure sostenendo il confronto leale con gli “uomini di buona volontà”, anche se di altre convinzioni ideali. Sanno, infatti, che «l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è l’inciviltà dello scontro».

Mi sembra che le letture bibliche, annunciate in questa liturgia, possano essere raccolte nei tre titoli delle virtù teologali: fede, carità e speranza.​

Il Vangelo di Marco (Mc 5, 21-43) è centrato sull’invito ad essere credenti: infatti, ci assicura che il Signore può guarirci dalle nostre patologie esistenziali (cfr. l’emorroissa), come pure può tirarci fuori dalle situazioni che ci uccidono (cfr. la figlia di Giairo), se Lo lasciamo operare offrendoGli la nostra fede.

Stasera chiedo, con voi, la grazia di “credere” ed amare con lo stile di Maria, sapendo che Dio fa sempre “grandi cose” in coloro che diventano un’eco del suo “sì”.

Il brano della seconda lettera ai Corinti ci esorta a testimoniare la caritàche sa condividere i beni spirituali, ma anche quelli materiali: «13Non si tratta infatti di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. – affermava l’apostolo Paolo – 14Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza» (2 Cor 8,7.9.13-15).

Tale generosità fraterna va esercitata verso tutti, ma in particolare nei confronti delle povertà, nuove ed antiche: penso in particolare agli emigranti. L’atteggiamento “samaritano” dell’amore è un aspetto che caratterizza la Chiesa in uscita, protesa verso le periferie esistenziali. La scelta preferenziale degli ultimi è chiesta a tutti i cristiani, ma in primo luogo, a coloro che collaborano più direttamente con il Successore di Pietro. CosìPapa Francesco si rivolgeva ai nuovi Cardinali: «questa è la logica di Gesù, questa è la strada della Chiesa: non solo accogliere e integrare, con coraggio evangelico, quelli che bussano alla nostra porta, ma uscire, andare a cercare, senza pregiudizi e senza paura, i lontani manifestando loro gratuitamente ciò che noi abbiamo gratuitamente ricevuto. “Chi dice di rimanere in [Cristo], deve anch’egli comportarsi come lui si è comportato” (1 Gv 2,6). La totale disponibilità nel servire gli altri è il nostro segno distintivo, è l’unico nostro titolo di onore! (…). In realtà, cari fratelli, sul vangelo degli emarginati, si gioca e si scopre e si rivela la nostra credibilità».

Infine, la pagina presa dal profeta Sofonia, apre orizzonti di gioiosa speranza. Poiché la Scrittura non solo parla “a” noi, ma anche parla “di” noi, vorrei attualizzare questo messaggio biblico di consolazione e di fiduciosa attesa applicandolo alla nostra Comunità ecclesiale e sociale. Permettetemi, dunque, di tradurlo così: «Rallégrati, L’Aquila, grida di gioia, esulta e acclama con tutto il cuore! Non temere, non lasciarti cadere le braccia! Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3, 14-17).

​Che bello sentirsi dire: “gioirà per te”. Dunque, ci è data la grazia non solo di ricevere gioia “da” Dio, ma anche di diventare la gioia “di” Dio!

​Mettendomi su questa lunghezza d’onda spirituale, auguro, alla indomita popolazione aquilana, che, dopo il lungo inverno del terremoto, vedaavanzare rapidamente la promettente primavera di una ricostruzione integrale, cioè di una ricostruzione a “misura della Città”, il che vuol dire, a misura di “tutto” l’uomo e di “ogni” uomo. San Celestino V, da sette secoli nostro amatissimo Concittadino, ci aiuti a percorrere le vie di un’autentica“risurrezione” aquilana, che è inesauribile creatività: cristiana e sociale.

A Maria Madre della Parola-fatta-carne; Donna della Pasqua; prima Testimone della Pentecoste consegno questa nuova missione che mi è stata affidata. Ci insegni lei, sempre di più, l’arte di “essere” e di “fare” comunione, per portare a tutti e in tutto il Signore Gesù: Verità, Vita e Via; l’Alfa e l’Omega; Colui che era, che è e che viene; l’Onnipotente! (cfr. Ap 1, 8) Amen!


01 Luglio 2018

Categoria : Attualità
del.icio.us    Facebook    Google Bookmark    Linkedin    Segnalo    Sphinn    Technorati    Wikio    Twitter    MySpace    Live    Stampa Articolo    Invia Articolo   




Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento

Utente

Articoli Correlati

    Nessun articolo correlato.