Oppressi e oppressori di una storia infinita
di Gianfranco Giustizieri -
Massimo Cacciari, in uno dei suoi ultimi articoli sulla crisi perdurante nel nostro paese, ha scritto questa frase da considerarsi centrale in un’argomentazione più vasta: “…una crescente e generale impotenza della politica a comprendere e governare i processi economici, sociali e culturali del nostro mondo”, e a confronto traggo fuori dalle ultime pagine di un romanzo recentemente uscito un pensiero di un ex ufficiale borbonico: “L’Italia è nata storta e crescerà storta” a seguito della feroce rappresaglia condotta dall’esercito piemontese su contadini ribelli, cittadini insorgenti, borbonici e briganti dell’ultima ora, nel periodo seguito all’annientamento del regno di Napoli.
Ora come allora: quasi centosessanta anni di storia separano i due pensieri, diversi i contesti, immaginario il secondo personaggio ma creato su radici storiche, simile il giudizio. Sicuramente evidenzio un parallelismo metaforico arbitrario e generalizzato ma…non troppo se un altro giornalista famoso, Antonio Padellaro, in una recensione del libro di Enzo Ciconte “ La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio” ha avuto modo di scrivere in questi giorni: “La mattanza scatenata dalle truppe piemontesi nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia ha qualcosa di mostruoso…Con la scusa della lotta alla criminalità l’esercito -italiano- scatenò il terrore nei confronti di tutti coloro che non si piegavano al nuovo stato di cose: insorgenti, nostalgici, borbonici, oltreché contadini in armi, definiti tutti briganti…Ci dice qualcosa che represso il brigantaggio negli anni successivi…gruppi di uomini si organizzano…fenomeno del tutto nuovo che nel tempo prenderà il nome di mafia, camorra, ‘ndrangheta…l’eterna questione meridionale?…metà del Paese di cui parliamo vive (e sopravvive) in una condizione tale di sofferenza, e spesso di disperazione…Gli ultimi di oggi come gli ultimi di allora.“.
Ho tagliato molto dal concetto perseguito lasciando la sostanza ma rimane il problema della fine di un linguaggio politico dell’ascolto e del confronto come richiamato da Cacciari soprattutto di fronte a pericoli di esplosione sociale nei territori più sofferenti del nostro paese. Le due Italie dalle molte verità che nei cicli temporali della nostra storia i filosofi, gli storici e in generale gli uomini di cultura hanno posto e pongono sotto la lente d’ingrandimento.
Enrico Graziani non è uno storico, né filosofo ma un uomo di cultura e scrittore (già senatore della Repubblica, autore di un primo romanzo “Prima che scenda la notte”, fervente combattente di battaglie civili in difesa dell’ambiente, solido conoscitore delle nefandezze che in nome della ricerca industriale vengono perpetrate nei territori) che agevolmente utilizza la penna per studi sull’ambiente, riflessioni letterarie, raccolte di interventi parlamentari per giuste cause: la scrittura come invito alla riflessione, alla maturazione del pensiero in percorsi di causa-effetto.
Così ha pubblicato il romanzo storico, “L’assedio” Robin Edizioni, Torino, 2018, a cui si accennava all’inizio, che utilizza una trama anche amorosa e di passione per porre alcune riflessioni su problemi che sono sotto i nostri occhi. Gabriele, giovane ufficiale dell’esercito napoletano, in servizio nella fortezza di Civitella del Tronto, ultimo ed eroico baluardo per la difesa del regno borbonico di Francesco II ormai in fuga, intreccia una appassionata e carnale storia d’amore con Anna, vedova di un ufficiale mentre persegue un innamoramento più platonico verso Cinzia, la figlia di un notabile del posto. Tra intrecci amorosi, gesta di eroismo, amicizie tragiche, aiuti dai contadini del circondario per i vettovagliamenti che il giovane ufficiale riesce a procurare a rischio della vita, infuria l’eroica resistenza della fortezza che alla fine è costretta a capitolare alle forze piemontesi. Gabriele riesce a fuggire, con l’ausilio dei contadini/briganti del posto, ricercato dai piemontesi convinti che Civitella del Tronto abbia saputo resistere al lungo assedio grazie ai rifornimenti che il giovane alfiere era riuscito con l’astuzia a procacciarsi per così lungo tempo. Infine, dopo alcuni giorni di soggiorno appassionato e nascosto nella casa di Anna e una breve apparizione a Napoli, Gabriele s’imbarca per gli Stati Uniti dove avrà riconoscimenti per la fama che lo ha accompagnato e conosciuta da parte dell’industrie del luogo onorate di avere tra i propri dirigenti un eroe italiano. Continua lo scambio epistolare con Anna, sa da lei della morte di sua madre, fino alla decisione comune di troncare la sofferenza della lontananza con l’interruzione di ogni forma di comunicazione: ognuno verso il proprio destino. Una sola cosa Gabriele non conosce, celata caparbiamente da Anna come ultimo atto d’amore per lasciarlo libero da ogni pensiero: la nascita di un bambino frutto del loro amore.
Questa la trama, brevemente riassunta, nel libro di Graziani, una storia d’amore in un periodo storico di grandi cambiamenti, perseguito nella narrazione con un rigore documentale proprio della scrittura storica che intreccia lo sviluppo di una narrazione romanzata con fonti documentali relativi al 1860 ed anni seguenti.
Ma l’autore va ben oltre il romanzo. Pone alcune riflessioni che s’innestano quasi nascoste tra le pagine mentre un’altra esce dichiaratamente dalle vicende che la Storia ci ha consegnato. La consapevolezza della dignità della donna continuamente calpestata negli ambienti familiari e di vita, il rifiuto delle diversità con i conseguenti isolamenti sociali, il disprezzo per l’ottusità e l’irrigidimento militare, l’orrore per la guerra, l’omologazione sociale e le convenzioni piccolo-borghesi di ogni tempo e altro ancora escono dai dialoghi dei personaggi, dalle frasi descrittive, dalle parti di raccordo narrativo e vengono offerti al lettore.
Poi la riflessione più intensa, la più estesa, la più amara, allora come ora: gli ultimi rimangono ultimi in ogni era. “La storia ci ha insegnato che se in una comunità sono la normalità l’ignoranza e lo spirito di sopraffazione dei ricchi nei confronti dei poveri, e non si fa niente per estirparli, si generano storture così radicate nella società e nell’animo della gente da produrre effetti malefici per tanto tempo dopo il loro eventuale superamento, come una piaga che continua a suppurare senza mai guarire”, così precisamente a pag. 97 e diffusamente in tutto il libro. C’è la condanna del Regno borbonico con tutte le sue arretratezze di dominio assoluto e di favori ma anche dello Stato che si è imposto solo con la conquista militare, c’è la condanna di non aver saputo ascoltare le speranze di un popolo calpestato dagli anni della Storia e la comprensione per coloro divenuti briganti “…per l’estrema miseria e per le intollerabili ingiustizie che da sempre tormentano il mondo contadino”. Ingiustizie, sopraffazioni, miseria che aprono le vie dell’emigrazione! E poi se qualcuno lascerà un diario di guerra (Gabriele ne ha lasciato uno ritrovato da un discendente) è forse perché si legga, per un messaggio lasciato ad altre generazioni “…per rendere testimonianza di una verità che si prevede possa venire stravolta”.
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