Andare in montagna, un gesto d’amore
L’Aquila – (di Carlo Capannolo – foto di Paolo Boccabella) – Il tema della sicurezza in montagna si ripropone con la massima evidenza dopo i recenti e tristi avvenimenti che hanno riguardato la scomparsa di 2 alpinisti sul massiccio del Gran Sasso e la miracolosa possibilità di sopravvivere alla caduta della slavina da parte di un terzo uomo della stessa cordata. Ma quello che sembra oramai un bollettino di guerra ha registrato anche nell’ultimo fine settimana, ulteriori vittime sulle Alpi, ben 9 per la precisione. Per ogni vita che si spegne in questa bellissima attività che è l’alpinismo sia invernale che estivo, nasce in noi un misto di sentimenti composto da pietà umana, meraviglia e anche rabbia. Ciò è giustificabile dal fatto che l’andare in montagna è sempre un gesto d’amore inteso come estremo altruismo paradossalmente, e senza contraddizione, verso se stessi, ma soprattutto nei confronti delle bellezze naturali che l’ambiente montano offre senza limiti. L’amore, insito anche nel rapporto uomo montagna, è simbolo di vita e da qui l’impossibilità di accettare che l’esistenza possa spegnersi nei luoghi in cui essa trova la sua più bella giustificazione e forse il suo stesso fondamento.
Vita e morte dunque coesistono in un equilibrio delicatissimo ogni volta che si decide di affrontare la montagna inteso come spazio nel quale sperimentare le proprie capacità che dovrebbero essere sempre fondamentalmente atletiche. In quel delicato equilibrio consiste l’attitudine al rispetto di se stessi, della propria vita , ma anche dell’ambiente che vogliamo esplorare. La sfida lanciata alla montagna è sempre pericolosa perché c’è in agguato la sopravvalutazione delle proprie capacità e la sottovalutazione di un ambiente che impone esperienza e accortezza a chi lo attraversa.
Il fascino della verticalità e dell’ascensione, quasi in una forma di reductio ad unum, esprime l’aspirazione dell’uomo alla conquista dell’altro da sé, in una continua tensione verso l’assoluto. Tuttavia questa condizione preliminare non può offuscare chi si avventura lungo itinerari di evidente difficoltà tecnica, magari con condizioni meteo, chiaramente segnalate dagli organismi competenti, che preludono a vere e proprie previsioni di pericolo, siano esse distacchi di masse di neve sottoforma di valanghe o slavine, ma anche di perturbazioni comunque pericolose per qualsiasi forma di escursionismo. Il punto è che la scarsa considerazione della propria esistenza, compromette a volte anche quella degli altri e allora siamo costretti a parlare di una vera tragedia spesso assolutamente evitabile con il solo buon senso. Amare la montagna e le infinite possibilità che essa offre per lo svago e l’attività fisica, significa riconoscerla come madre/terra e come in tutti i rapporti madre/figlio la morte per omicidio è sempre un’anomalia. In questo caso qualcosa non funziona e parliamo di tragica fatalità , quasi a voler trovare una giustificazione che può risiedere solamente nell’imperizia o imprudenza dell’uomo. In ogni caso la nostra libertà finisce quando inizia quella degli altri e ciò vale anche nel caso delle scelte funeste compiute in montagna, a valle delle quali c’è il rischio, e a volte, come accaduto di recente, anche la morte stessa di chi soccorre, spesso in modo volontario, spinto da uno slancio che è l’essenza stessa della vita che si oppone alla morte e non si rassegna ad essa.
Cultura, rispetto e senso del limite sono 3 termini desueti un po’ a tutti i livelli, in questa società dove sembra tutto possibile, abbordabile, da prendere e consumare, fosse anche la propria esistenza. Al di là di ogni atto normativo, sebbene necessario, che imponga comportamenti più assennati anche in montagna, credo che in quelle 3 parole ci sia la sintesi della soluzione per riappropriarsi di un rapporto più giusto ed equilibrato con il mondo circostante.
(Nelle foto di Paolo Boccabella: slavina da Pizzo Cefalone sul Gran Sasso, nella seconda immagine si scorge Assergi)
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