Ricordiamo Marcinelle – Quel sacrificio di 60 anni fa ha contribuito a costruire il nostro presente


di Domenico Logozzo *

GIOIOSA JONICA (Reggio Calabria) – “La sicurezza sul lavoro è una battaglia di civiltà a cui tutti dobbiamo contribuire per consolidare sempre più la dignità della persona umana”. Di grande attualità le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella a 60 anni dalla sciagura mineraria di Marcinelle, dove l’8 agosto del 1956 morirono 262 minatori, 136 dei quali italiani. L’Abruzzo, la regione che pagò il tributo più alto con 60 vittime. “L’immane sacrificio di coloro che sono partiti con la speranza di migliorare le condizioni di vita dei propri figli – ha recentemente ricordato il Capo dello Stato, incontrando al Quirinale una delegazione abruzzese guidata dal governatore D’Alfonso – ha contribuito a costruire il presente del nostro Paese”.

Dal 2001 per iniziativa del presidente Carlo Azeglio Ciampi, l’8 agosto si celebra la “Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo”. Quattro anni dopo lo stesso Ciampi, in occasione del 2 giugno, Festa della Repubblica, conferì la medaglia d’oro al Merito Civile ai 136 minatori italiani morti a Marcinelle “per avere sacrificato la vita ai più nobili ideali di riscatto sociale. Luminosa testimonianza del lavoro e del sacrificio degli italiani all’estero, meritevole del ricordo e dell’unanime riconoscenza della Nazione tutta”.

Anche questo 8 agosto deve rappresentare un nuovo momento di profonda e convinta riflessione. Alcuni giorni fa, inaugurando in Abruzzo un monumento al minatore donato dall’associazione ‘Minatori – Vittime del Bois du Cazier”, la presidente della Camera Laura Boldrini ha auspicato “meno precarietà, più controlli e anche più importanza al lavoro come aspetto della dignità dell’individuo”, sottolineando che “purtroppo sul lavoro e di lavoro si continua a morire” e che “le perdite non possono essere effetti collaterali, non possiamo convivere con la morte sul lavoro”. Ancora oggi tante le emergenze. Tanti i problemi irrisolti. Dalla sicurezza sui luoghi di lavoro alla precarietà occupazionale; dalla nuova emigrazione all’accoglienza degli immigrati. No agli schiavi del lavoro. “Il valore primario del lavoro è il bene della persona umana – ha più volte ricordato papa Francesco -, perché la realizza come tale, con le sue attitudini e le sue capacità intellettive, creative e manuali. Da qui deriva che il lavoro non ha soltanto una finalità economica e di profitto, ma soprattutto una finalità che interessa l’uomo e la sua dignità”.

Non solo in Abruzzo, ma anche nelle regioni italiane che hanno vissuto e vivono il dramma dell’emigrazione, per l’8 agosto sono state programmate iniziative di studio. In Calabria, l’Associazione Museo della Scuola “I Care” di Siderno, presieduta dal dirigente scolastico prof. Vito Pirruccio, con il comune di Mammola e con il Centro Studi Nicodemei ha organizzato un pomeriggio di riflessioni su “MARCINELLE, LA TRAGEDIA DELL’EMIGRAZIONE”. Coordinerà i lavori il dirigente scolastico Giovanni Pittari, con interventi del sindaco Stefano Raschellà, del prof. Vito Pirruccio, del presidente del “Centro Studi Nicodemei” Giuseppe Agostino, dello studioso Franco Blefari e di familiari delle vittime di Marcinelle. Verranno tra l’altro proiettati servizi della Rai dell’Abruzzo con immagini d’epoca.

Testimonianze toccanti. Maria Martinelli, la bimba di 6 anni che nel 1956 commosse il mondo. Il suo pianto disperato durante i funerali divenne l’immagine-simbolo del dolore collettivo. Maria Di Valerio, la vedova-bambina: aveva una figlia di 14 mesi e aspettava la nascita della seconda. Il minatore-eroe Silvio Di Luzio: aveva coraggiosamente cercato di salvare i compagni, scendendo nella miniera e rischiando la morte”. Eroe nazionale in Belgio, dove era stato insignito dell’ordine del merito di Leopoldo II dal Re Baldovino nel 1957, Di Luzio nel 2002 aveva avuto dal presidente Ciampi l’onorificenza di commendatore della Repubblica Italiana. Enzo Biagi nel libro “Consigli per un Paese normale”, gli dedicò un capitolo dal titolo “In un Paese normale gli eroi sono gente come noi”. Silvio Di Luzio, che è morto in Belgio a 79 anni, raccontò a Biagi: “Quando arrivammo alla miniera vedevamo solo fumo, era tutto buio, ma sapevamo che lì sotto, a mille metri di profondità, c’erano 275 nostri colleghi. Io avevo già partecipato ai soccorsi per altre sciagure, ero allenato. Ma quando siamo arrivati lì sotto, abbiamo trovato l’inferno. Non so come noi stessi siamo riusciti a salvarci”.

Non dimenticare. “Oggi, più che mai, è importante ricordare. Oggi che l’Italia è tornata ad essere terra di emigrazione per tanti giovani in cerca di una vita dignitosa e, allo stesso tempo, si trova ad essere meta o luogo di passaggio per tanti, tantissimi migranti disperati, in fuga dai paesi colpiti da fame e da guerre”. A scriverlo nel libro “La nostra Marcinelle. Voci al femminile”, appena pubblicato da Edizioni Menabò-Fondazione Pescarabruzzo di Pescara, è Martina Buccione, nipote di una delle vittime della miniera belga. Un libro scritto “per non far morire la memoria della miniera” e per ricordare che “la tragedia di Marcinelle impose alla Storia un nuovo corso, fece sì che si riflettesse in modo diverso su questioni cruciali come il lavoro, la sicurezza, l’emigrazione, su scala europea”. Riflettere ancora sulle questioni cruciali. Così attuali, 60 anni dopo. Questo si propone innanzitutto l’Associazione Museo della Scuola “I Care” con l’iniziativa programmata a Mammola. Il presidente prof. Vito Pirruccio conosce bene il mondo dell’emigrazione. Attento studioso, viene da una famiglia di emigranti: nonno, padre e zii. L’anno scorso ha pubblicato il libro “L’emigrazione vista da vicino. Storia di ordinaria emigrazione di una famiglia calabrese tra racconto e intervista” (Calabria Letteraria-Rubbettino Editore). Scritto con il cuore. Le difficoltà, i sacrifici e il coraggio degli emigranti.

“Abbiamo scelto Mammola – ci dice il prof.Pirruccio – perché è uno dei paesi della Locride da cui partirono, nella prima e nella seconda ondata emigratoria del ‘900, lavoratori destinati alle miniere d’Europa e delle Americhe. Ma altri “distretti minerari” calabresi si caratterizzarono negli anni per l’offerta di manodopera nelle principali miniere del Belgio e non solo. Sono stati quattro i calabresi che hanno perso la vita nello scoppio della miniera Bois du Cazier: Antonio Danisi di 34 anni, nativo di Reggio Calabria, sposato con 4 figli; Pasquale Papa, di 31 anni, anch’egli di Reggio Calabria, sposato con 4 figli; Pietro Pologruto, di 29 anni, di Petrizzi (CZ), coniugato senza figli e Vincenzo Sicari, di 29 anni, di Rosarno. La loro storia è simile ai tanti italiani, del Nord e del Sud, che risposero all’appello del governo italiano, nell’ambito dell’accordo uomo-carbone tra il Belgio e l’Italia, per reclutare giovani sotto i 35 anni da destinare ai distretti minerari del Belgio in cambio della fornitura di carbon fossile alla disastrata economia italiana del dopoguerra”.

Un accordo scellerato. Un sacco di carbone valeva più della vita di un uomo! I rischi erano moltissimi e non c’era nessuna tutela. Vigliacchi speculatori! Tanta fame. Tanta disperazione. Tanta disoccupazione. Fuga obbligata. Ci fu una massiccia e ingannevole campagna di “reclutamento”. Ricorda il prof. Pirruccio: “Agli appelli apparsi sui famosi “manifesti rosa” affissi nei paesi del Sud, risposero tantissimi giovani (saranno 156.000 gli italiani che raggiungeranno il Belgio nell’arco di un decennio) che, prima di varcare la frontiera italiana, dovevano sottoporsi alle visite mediche nella stazione di Milano e successivamente, con un biglietto pagato dall’Italia e dal Belgio, varcare il confine con destinazione i distretti minerari più produttivi d’Europa. Molti di questi giovani, dopo poco tempo, verranno raggiunti dalle giovani spose e il Belgio ospiterà una delle più numerose comunità di italiani in Europa”.

Vita dura quella dei nostri emigranti. Sfruttati e in condizioni di lavoro disumane. Simonetta Fiori, recensendo su Repubblica del 3 luglio scorso il libro di Toni Ricciardi “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone”, edito da Donzelli, ha scritto: “Alcune pagine sembrano ricalcare l’attualità, soprattutto là dove viene ricostruita la rete dei trafficanti, «individui privi di scrupoli, cooperative, società di spregiudicati che illegalmente reclutavano nelle campagne braccia e famiglie da destinare al fruttuoso business dell’immigrazione». Regolari o irregolari, l’importante era «che fossero in tanti ad andare a scavare il carbone nelle viscere della terra». Si trattò di una “emigrazione di Stato”, «uno dei più imponenti sistemi di esportazione di manodopera che la recente storia occidentale ricordi».

Cercavano una vita migliore. Molti hanno trovato la morte. Dal 1946 al 1963 gli italiani che hanno perso la vita nelle miniere sono stati 867. La Calabria ha pagato un pesante tributo, non solo in Belgio ma in tante altre parti del mondo. Ricordiamo i sette operai di San Giovanni in Fiore morti in Svizzera il 30 agosto 1965, nella disgrazia di Mattmark. Una valanga di quasi due milioni di metri cubi si staccò da un ghiacciaio e in pochi secondi travolse le baracche e gli operai impegnati nella costruzione di una diga. I lavoratori avevano denunciato i pericoli. Inascoltati. Assurdamente ignorati. Zero umanità, turni anche fino a 16 ore al giorno! Fu un nuovo grave lutto per San Giovanni in Fiore, dopo che il 6 dicembre 1907, nell’esplosione della miniera di Monongah, negli Stati Uniti, persero la vita decine di minatori emigrati dal comune cosentino. Una ecatombe a lungo dimenticata. Si parlò di 362 morti. Ma sarebbero stati molti di più. 171 le vittime “ufficiali” italiane, soprattutto provenienti dal Molise. Il numero preciso e l’identità dei minatori scomparsi non si sono mai saputi con certezza. Molti non erano stati registrati all’ingresso in miniera. E questo perché “c’era il buddy system, o pal system, il sistema dell’amico, prassi secondo la quale i minatori potevano avvalersi, senza essere obbligati a darne comunicazione al datore di lavoro, dell’aiuto di parenti (anche bambini!) e amici con i quali poi dividevano la paga”. Più carbone consegnavano e più guadagnavano. Senza orari e senza alcuna tutela. Lavoratori-schiavi!

Ma ritorniamo al disastro del 1965 in Svizzera. 88 vittime, 56 italiani, 7 di San Giovanni in Fiore. Poco meno di un anno dopo, il 21 aprile 1966, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, durante la visita ufficiale in Calabria, si recò a San Giovanni in Fiore per incontrare le mogli ed i figli degli operai morti in Svizzera. Prima era stato a Motta San Giovanni per rendere omaggio al sacrificio dei minatori del comune reggino e presenziare all’inaugurazione del “Monumento al Minatore”. A San Giovanni in Fiore Saragat era stato accompagnato dal presidente della Camera, Sandro Pertini, dal presidente del Senato Zelioli Lanzini e in rappresentanza del governo dal ministro dei Lavori Pubblici Giacomo Mancini. Presenti anche i sottosegretari Antoniozzi e Principe, l’on. Misasi e i maggiori esponenti politici e amministrativi del cosentino.

“Una giornata indimenticabile, di grande commozione e dolore”, ci dice la prof.ssa Damiana Guarascio, allora giovanissima docente a San Giovanni in Fiore, oggi preside in pensione a Pescara, dopo avere per anni diretto la Scuola Media Villa Verrocchio di Montesilvano. “Una toccante cerimonia”, ripete più volte. Ha gelosamente conservato le foto di 60 anni. Ce le mostra. Ci fa fare una copia. Si commuove, ripensando a quel giorno che l’inviato Lamberto Furno, ha così raccontato sulla prima pagina del Corriere della Sera. “Sul piazzale delle scuole elementari, l’unica piazza esistente, sono cessate di colpo le acclamazioni mentre il Capo dello Stato scopriva una lapide a memoria di questi e di altri caduti sul lavoro. Saragat ha sostato qualche istante, poi si è avvicinato al mesto gruppo dei congiunti: erano tutti vestiti di nero, anche i bambini. Le donne piangevano compostamente sotto i veli calati sui volti. Sino ad oggi non erano mai uscite di casa dal 30 agosto 1965, quando accadde la sciagura. Portavano sul petto la Croce al merito del lavoro assegnata ai loro cari.

Teresa Guarasci, perse a Mattmark il marito di vent’anni, il figlio ne aveva due. C’era anche la «vedova bambina», Serafina Cappelletti, 18 anni, che visse con il marito appena otto mesi. Il Presidente ha baciato la mano a ciascuna vedova, ha carezzato gli orfani. Le donne si chinavano per baciare la mano di Saragat, secondo il costume locale, ma egli le tratteneva. Ripeteva: «Coraggio». La lapide reca questa scritta: «Alle vittime di Mattmark, agli emigrati caduti sul lavoro che per sé, la famiglia e la terra natia rifiutando miseria e arretratezza affrontarono sacrifici, sofferenze e morte lasciando alle nuove generazioni esempio luminoso di dignità umana e appello sublime alla lotta per il riscatto e l’avvenire di Calabria». E’ un’epigrafe che rispecchia la condizione della Calabria che ha centinaia di paesi come San Giovanni in Fiore dove l’unica alternativa all’emigrazione è la miseria. Su 20 mila abitanti, 7 mila sono lontani, il reddito pro capite non arriva a 100 mila lire l’anno, l’ospedale più vicino è a 72 chilometri e non pochi malati sono morti per via. Il presidente Saragat, dopo l’incontro con i congiunti dei caduti, ha dedicato un commosso ricordo alla tragedia di Mattmark, augurando che l’auspicata unificazione economica e sociale delle due Italie si realizzi”.

L’auspicio del presidente Saragat purtroppo non si è concretizzato, mentre il prof. Pirruccio sottolinea l’obbligo soprattutto della gente del Sud di ricordare “coloro i quali hanno rappresentato il più alto contributo dato all’Italia come nazione moderna. Questi uomini sono il nostro orgoglio che nessuna antistorica politica leghista può mai mettere all’angolo. Purtroppo siamo spesso anche noi meridionali, noi calabresi, a relegare nel dimenticatoio le risorse umane che hanno elevato l’Italia come Nazione e il Sud come portatore di cultura del lavoro nel Mondo”. Il prof. Nicola Mattoscio, che è stato presidente della Fondazione Pescarabruzzo e che ha scritto la presentazione del libro di Martina Buccione, partecipando all’incontro della delegazione abruzzese con il presidente Mattarella, ha evidenziato il dramma sociale dell’emigrazione del Novecento con 300mila abruzzesi emigrati in tutto il mondo. Un dramma da non dimenticare che deve essere posto “a fondamento del patrimonio umano e culturale della regione”.

Sostenere le azioni positive di chi si impegna per onorare la memoria delle vittime del lavoro. “Tanti italiani erano partiti alla volta del Belgio per inseguire il sogno di una vita migliore, non solo per loro, ma anche per le loro famiglie. Sopportavano la lontananza dal loro Paese e le privazioni del durissimo lavoro in miniera, per raggiungere gli standard di una vita accettabile, normale, per concedere a sé, alle mogli e ai propri figli un paio di scarpe nuove, un’uscita al cinema o un concerto. Ciò che desideravano era rendere meno duro il futuro dei loro familiari. Sono andati in Belgio per trovare più vita, ma hanno trovato la morte”. A scriverlo è ancora Martina Buccione, nel libro “La nostra Marcinelle. Voci al femminile” che ha dedicato “alle donne, che danno vita alla vita”, sottolineando che “è un omaggio alle donne di Marcinelle, vedove ed orfane, che hanno coraggiosamente rotto il silenzio, consentendo di raccontare quel mondo di una volta che intorno alla miniera si era creato, denso di valori semplici ma essenziali, quali la condivisione, la solidarietà, l’autenticità, l’accoglienza”. Perché è importante “trasmettere la memoria alle nuove generazioni e mantenere vivo il ricordo di ciò che è stata l’emigrazione italiana”.

La memoria da coltivare. I buoni esempi da seguire. “L’Abruzzo – rileva a questo proposito il prof. Pirruccio -, ha l’orgoglio della Memoria e constato che sia le istituzioni politiche che culturali sono particolarmente sensibili a lasciare tracce del passato e a trasmetterle alle nuove generazioni. Penso alla Fondazione Pescarabruzzo che ha curato una mostra sulla tragedia di Marcinelle e ha finanziato il lavoro di Martina Buccione. Purtroppo, la nostra Calabria arranca, anche quando avrebbe facile motivo di alzare la testa. Trasmettere memoria è la più grande opera enciclopedica dell’uomo e senza memoria non ci si può orientare, specie nel mondo “liquido” di oggi. Per noi Sud, per noi Calabria, se vogliamo capirlo, coltivare la memoria significa alimentare il nostro possibile riscatto anche rispetto ad una subalternità culturale in cui siamo stati relegati dalle centrali politiche e mediatiche del Paese”. Il prof. Pirruccio, preoccupato, evidenzia che “c’è un altro tema impellente da affrontare e che la dice lunga sulla nostra proverbiale “distrazione”: la fuga dalla nostra terra degli emigranti di oggi, emigranti del “non ritorno”, giovani con un robusto bagaglio culturale e professionale costretti a lasciare il Sud con destinazione non solo il Nord ma i Paesi europei che li hanno ospitati, in molti casi, come studenti Erasmus. Giovani energie che vanno ad arricchire le terre di destinazione con il conseguente impoverimento umano ed economico del martoriato Mezzogiorno”. Proprio così. Purtroppo.

Iniziative come quella calabrese di Mammola vanno sicuramente nella giusta direzione, rendendo omaggio al sacrificio dei nostri emigranti e facendo conoscere le grandi lezioni che ci hanno lasciato come preziosa eredità. Da non disperdere. “Quella tragedia – ripeteva con commozione ed orgoglio il minatore eroe Silvio Di Luzio -, ha fatto sì che cambiasse l’atteggiamento dei belgi nei nostri confronti. Noi italiani venivamo finalmente rispettati. Fino ad allora eravamo trattati come schiavi”. Ed è opportuno riportare anche le parole del presidente Ciampi, che nel corso della visita di Stato in Belgio, il 17 ottobre 2002, incontrò le vedove e gli orfani delle vittime di Marcinelle. “Le terre che essi abbandonarono hanno da allora conosciuto la fioritura di un nuovo benessere, grazie anche a quelle che si chiamavano “le rimesse degli emigranti”, e grazie all’operosità dei loro fratelli”. E citò in particolare l’Abruzzo “che è oggi una regione che avanza sicura sulla via del progresso civile ed economico”. La Calabria continua invece ad essere ultima. Purtroppo. Ma non può essere ancora così. Cinquanta anni fa a San Giovanni in Fiore il presidente Saragat auspicava “l’unificazione economica e sociale delle due Italie”. Speriamo che ci sia finalmente una forte presa di coscienza da parte del governo centrale e di quello regionale, affinché finalmente si arrivi alla concretizzazione di un progetto comune di sviluppo. E’ un dovere al quale non ci si può più sottrarre, per onorare la memoria di quanti hanno perso la vita lavorando all’estero, per garantire un futuro migliore alle loro famiglie ed all’Italia, tutta intera!

*già Caporedattore Tgr Rai


07 Agosto 2016

Categoria : Attualità
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