Il Giorno della Memoria e il difficile rapporto con lo sterminio del popolo ebreo


L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) – Il “Giorno della Memoria” è una ricorrenza istituita con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 dal Parlamento italiano, che ha in tal modo aderito alla proposta internazionale di dichiarare il 27 gennaio come giornata in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo (nazismo) e del fascismo e in onore di coloro che a rischio della propria vita hanno protetto i perseguitati. La data è stata scelta in ricordo del 27 gennaio 1945, quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso dell’offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (nota con il nome tedesco di Auschwitz), scoprendo il suo tristemente famoso campo di concentramento. Quindi, in questo giorno, si celebra il ricordo della Shoah, cioè lo sterminio del popolo ebreo, così come dalla risoluzione 60/7 del 1° novembre 2005 dell’ONU. Shoah (in lingua ebraica השואה ), significa “desolazione, catastrofe, disastro” e venne adottato, per la prima volta nel 1938, dalla comunità ebraica in Palestina, in riferimento alla “Notte dei cristalli” (9-10 novembre 1938), inizio dell’intolleranza nazista nei confronti degli ebrei. Come sinonimo di olocausto, così come suggerito dal titolo del documentario di 9 ore realizzato dal regista ebreo Claude Lanzmann nel 1985, è stato adottato solo recentemente. Complesso poi, sotto il profilo psicologico, sociale e storiografico, il rapporto anche degli ebrei con la Shoah, dalla fine della I guerra mondiale e fino ai nostri giorni. Per molto tempo, infatti, in molti, anche fra gli ebrei, mostrarono un atteggiamento tendente a marginalizzare o dimenticare la Shoah. Lo storico ebreo Raul Hilberg, racconta nelle sue memorie che, quando nel 1948 aveva proposto a Franz Neumann, suo professore alla Columbia University, di lavorare ad una tesi di dottorato dal titolo “Lo sterminio degli ebrei d’Europa”, questi aveva accettato senza entusiasmo facendogli notare che si trattava di un tema che non interessava né il mondo degli storici né tanto meno l’opinione pubblica. Fino alla fine degli anni ’50 sulla Shoah cadde un silenzio pressoché assoluto, se si prescinde da alcune raccolte documentarie e brevi studi. Le poche memorie pubblicate, sebbene alcune di esse fossero destinate ad un buon successo di pubblico, restarono voci isolate. I programmi di “rieducazione” promossi dagli alleati in Germania, prevedevano la proiezione di numerosi filmati, ma circolavano soprattutto cortometraggi relativi alla liberazione dei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, che contribuivano indirettamente a collocare lo sterminio in un est tanto remoto quanto sconosciuto. Fu solo nel decennio successivo, dopo una fase di negazione e rimozione anche da parte della comunità ebraica, che il velo cominciò a squarciarsi, soprattutto in conseguenza dei processi intentati contro alcuni protagonisti della politica di annientamento, primo fra tutti quello contro Adolf Eichmann, svoltosi a Gerusalemme nel 1961 e quello di Francoforte, che ebbe luogo fra il 1963 ed il 1965, contro i comandanti del campo di Auschwitz. Fu proprio grazie al materiale documentario raccolto per la fase istruttoria dei processi che uscì, nel 1965, un testo fondamentale che ha per la prima volta messo in luce molti degli aspetti che sarebbero poi stati ripresi, con ben più ampie prospettive e ricchezza documentaria, solo vent’anni più tardi fra cui il sistema dei campi di concentramento, la guerra di sterminio ad est, la politica antisemita del regime. Ma, nonostante tutto, ancora la Shoah, probabilmente per motivi generazionali, fu molto marginalizzata: un luogo isolato fino alla fine degli anni ’70 del secolo scorso e con l’idea, suggerita da un saggio del 1972 dell’ebreo-tedesco Uwe Dietrich Adam, che la strage fosse ordita, voluta e prodotta solo da Hitler e da un gruppo ristretto di spietati criminali. Solo a partire dall’inizio degli anni ’80 alcuni studiosi (come Hans Mommsen e Martin Broszat), iniziarono a mettere in dubbio che si potesse parlare di un progetto nato nella sola mente di Hitler e sostanzialmente riconducibile alla sua ideologia e sottolinearono i numerosi aspetti ed interessi che concorsero alla sua realizzazione, come risultato non di un ordine del Führer, ma di un processo di “radicalizzazione cumulativa” che vide il suo apice nell’inverno 1941-‘42. E fu soltanto tra la fine degli anni ’80 e inizio anni ’90 che vennero superate le contrapposizioni fra le tesi uniciste e cumulative nella visione degli storici ebrei che ancora configgevano sul momento e le conseguenti responsabilità, fra Hitler l’intera Nazione, nel passaggio da una politica antiebraica (Judenopolitik) ad una di radicale distruzione (Vernichtungspolitik). E le contradizioni sono proseguite anche successivamente, non la generazione, anche di ebrei, che non ha vissuto direttamente i fatti e che sembra voler negare una vicenda tgantio tragica, insensata e dolorosa. Questo perché, come ha scritto il poeta ebreo Riccardo Bonavita di recente, ci si trova di fronte a degli eventi così terrificanti, che in qualche modo tendono a raschiare via in prima battuta , la possibilità di una vera risposta emozionale ed etica. In prima battuta (come dicono i pedagogisti), soprattutto negli adolescenti, c’è il rifiuto di un orrore che è così forte da mettere in discussione la propria aspirazione alla vitalità, il proprio legittimo bisogno di felicità. Allora si crea quasi una barriera, uno scarto, una sordità, che è peraltro una reazione del tutto normale. Come giustamente ha detto lo scrittore ebreo Frediano Sessi, di fronte a questi eventi ci sono due dialettiche: quella del capire e quella del patire e poiché è naturalmente impossibile provare, quello che è stato provato da chi è stato sottoposto a certe devastazioni, esse si rimuovono oppure si negano. Tuttavia è urgente, oggi, da parte del mondo intero, cercare di recuperare una possibilità di sentire una particella anche minima di tutto questo e di coglierne la profonda insensatezza e quindi ricavarne un senso, un senso che è la comprensione di quanto questi fatti potessero essere assurdi. In questo contesto e per quanto concerne la conoscenza di ampi settori della società e i modi di circolazione e diffusione del sapere rispetto alla Shoah, non va dimenticato che è stato lo sceneggiato televisivo, “Holocuast”, a contribuire in modo decisivo alla scoperta di questa realtà alla fine degli anni ‘70. Il tono dello sceneggiato è quello di indurre lo spettatore ad una specie di “perdono” e di oblio: dimenticare l’Olocausto e guardare avanti, senza troppo chiedersi quali ragioni possono indure l’uomo a tali insensatezze. Soprattutto con poche domante sull’antisemitismo, anticamera di ogni Shoah, che spiega non solo gli eccidi tedeschi, ma, ad esempio, quelli perpetrati nella Russia Bianca. Andrebbe letta da parte di tutti, la raccolta di poesie “Sotto il tiro di presagi”, di Celan, ispirata dai lavori di Adorno e redatta come un ininterrotto dialogo fra il poeta e la madre, morta ad Auschwitz, in cui il grande scrittore ebreo ci insegna, strofa dopo strofa, che inserire o dentro la negazione marginale o dentro il recinto anche confortevole della riflessione filosofica da accademia il problema Shoah, se ne fa una questione “protocollare”, meccanico, inumana, favorendo la continuazione, nel mondo, della morte atroce di un intero popolo, in ragione di supposte differenze razziali. Riflettere con attenzione e senza censure, paure o preconcetti, sulla Shoah, può (e deve) fornirci la possibilità (per non dire occasione) di aprirci ad un altro grande nucleo problematico che molta filosofia contemporanea ha interrogato e che anche la scrittura letteraria ha saputo interrogare a suo modo, esprimendone la drammaticità nel proprio tessuto verbale. Vale a dire il rapporto profondo che è intercorso nel Novecento tra gli orrori, i lati oscuri della nostra civiltà moderna e le nostre singole responsabilità, anche quando chiudiamo gli occhi e facciamo di tutto per ignorare. Per questo ciascuno è chiamato, nel ricordo di ogni Olocausto o feroce discriminazione, al tentativo di immedesimarsi nelle vittime, un immedesimarsi che però non è un’immedesimazione, come dire, “mimetica”, non è il tentativo di raccontare cosa possono aver provato, ma è la piena coscienza di assurdità atroci e dolorose. E’ duopo, attraverso un’alisi attenti della Shoh e dei tentativi di “annegamento”, che ciascuno costruirsca strisce logiche, quasi il montaggio cinematografico di momenti di esperienze sue e delle sue riflessioni, che si allaccino in un continuo interscambio tra eventi consimili, esplorandone compiutamente il senso (im)morale e, assieme ciò che essi producono nella nostra percezione.


27 Gennaio 2010

Categoria : Storia & Cultura
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