“La città che voleva volare”


L’Aquila – (di Walter Capezzali) – Presentato “La città che voleva volare”, volume in prosa “poetica” di Patrizia Tocci. Pur rifuggendo da etichettature culturali che non mi competono – sono e mi sento, professionalmente, un bibliotecario, semmai un ricercatore storico e un giornalista di lunga militanza, certo non mi sento e non sono un critico letterario – non voglio però sottrarmi al piacere di esprimere le mie impressioni dopo la lettura di questo volume, piccolo di formato ma ricco di sentimenti e di poesia, che Patrizia dedica alla Città dell’Aquila che sente “sua” come io la sento “mia”, io e lei non nati all’Aquila ma ugualmente ammaliati da questa città.
I pochi appunti che ho sotto gli occhi si aprono con una prima, sintetica riflessione. Ancora una volta, le “luci formative” dell’Autrice ricordano Eugenio Montale e Laudomia Bonanni e riportano il pensiero alle sue precedenti esperienze letterarie: Un paese ci vuole, Pietra serena, Una città, un amore. Ma subito è doveroso premettere una considerazione fondamentale: questo volume si avvale della Presentazione a stampa di Angelo Fabrizi, pagine che ora potrei leggervi per intero e ritenerle bastevoli, tanto mi sento di sottoscriverle rilevando che quelle impressioni sono anche le mie, e saranno sicuramente coincidenti con quelle di molti tra quanti vorranno leggere questo libro.
Del resto, forse non più di due ore sarebbero sufficienti per scorrere, di getto, tutte le pagine di questo esemplare “tascabile”, ma vi toglierei quell’insostituibile piacere di fissare gli occhi sulla carta stampata e far correre la vostra fantasia, i vostri pensieri. Con Fabrizi, che rischierò inevitabilmente di ripetere più d’una volta, condivido il giudizio a proposito di una prosa scarna e limpida, che è vera poesia di sentimenti e può essere viatico per “leggere”, attraverso le parole di Patrizia, luoghi ed umori della nostra Città.
Il libro era destinato ad avere un diverso titolo: Diacromie, ad anticipare la scelta di indagare, attraverso i colori, la realtà che ci circonda; ma il primitivo simbolo della raccolta doveva inevitabilmente cedere il passo ad un titolo diverso, dal momento che la sua stesura concettuale e formale, interrotta dal tremendo sisma del 6 aprile, doveva aprirsi ad una diversa conclusione; e il titolo doveva introdurre pensieri diversi e diverse sensazioni, tra tormento e speranza. I due capitoli iniziali, Intra ed Extra moenia, diventano quindi tre, e il titolo del terzo è davvero epigrafico: Dopo.
Evidente ancora una volta, nel pensiero di Patrizia, la “centralità” della Città. Spesso in passato mi sono trovato a parlare, a proposito dell’Aquila, di “civiltà della pietra”, che caratterizza ed esalta non solo l’Aquila ma tutto il suo Contado. Una pietra che, come rileva l’Autrice, è diventata macerie; che dobbiamo e vogliamo rimettere idealmente e materialmente in piedi per salvarne tutt’intera l’identità cittadina, sia pure con la misura saggia e concreta suggeritaci alcuni giorni addietro da un articolo di Alessandro Clementi, tra i sommi “cantori” di questa civiltà.
Ma la centralità di Patrizia (per la quale è doveroso replicare il rinvio a Pietra serena) non è né statica né insensibile: è l’insieme di Luce, Colori (diacromie), Rumori, Profumi; quindi pietra come scaturigine di vita, intensa e raffinata. Non è stato, forse, soltanto il caso che ha voluto per Patrizia e per me la stessa scelta esistenziale, nel centro storico, case vicine a cavallo di Piazza San Pietro Coppito, con inevitabili frequenti incontri nella raccolta centralità di un ideale scenario di quartiere. Molte di queste pagine sono nate in quella piazza, lì Patrizia ha incontrato la luce, i colori, i rumori, i profumi della Città, su quelle pietre accoglienti ha coltivato la gioia della scrittura, per salvare con la penna sui suoi libriccini di appunti i suoi pensieri, tanti, affollati, insistenti.
Mi piace cogliere anche nel parlare abituale dell’Amica, parole sempre sorridenti e veloci ad inseguire ed interpretare i sentimenti; piace cogliere nel suo parlare l’essenza anche del suo stile letterario, personalissimo ed efficace, illuminato da una profonda sensibilità.
In questo libro, per fugaci ma illuminanti citazioni, L’Aquila comunque c’è tutta: Porta Castello, via Garibaldi letta per interposta/contrapposta femminile personalità (quella di Laudomia Bonanni che vi abitò), Collemaggio trasfigurata in montagna celestiniana, la Fontana Luminosa luogo d’incontri fugaci tra arrivi e partenze di autobus, porta Branconio con le silenti riflessioni di una “vecchia” esistenza, via San Martino che invita al cammino solitario e pensante, la citata Piazza San Pietro, quella dei Gesuiti, l’Addolorata, via Venti Settembre… ma anche la città che si fa invisibile quanto l’attraversi, come fa Patrizia, ad esempio sotto i portici, leggiucchiando e abbinando allo storico rumore di antiche carrozze quello moderno di nuovi pratici strumenti trascinati sull’acciottolato, i carrelli dei bagagli su ruote, il cui ritmo, più o meno veloce, ti spinge a pensare, magari, se quella ragazza sia forse una universitaria “fuorisede” che rischia di arrivare in ritardo…
La città c‘è anche quando da intus l’osservazione si spinge extra le mura urbane, e scopre il fiume Aterno, e i colori diventano davvero primi protagonisti, dal biancofiore dei narcisi al grigio dei muretti a secco, al ruggine, al verderame di antiche pareti.
Passeggiare per L’Aquila e dintorni, come fa Patrizia, per rubare Colori, Odori, Rumori, per attivare Ricordi che sono Memoria, Oggetti, Persone, che si fanno pensieri preziosi, sensazioni gelosamente sottratte ai luoghi, per renderle indelebili ed irrinunciabili, anche quando si apre l’ultima pagina, quella del Dopo.
Dopo, sguardo ferito su luoghi feriti, brividi di sentimenti, sconforto, ma anche impegno. Per ricostruire, innanzi tutto, “le pareti della propria identità”, per poi credere nella resurrezione della Città amata. Vivere la paura che matura in un giro di valzer che è forse un macabro girotondo; esprimere, infine, come suggello convinto ed originale al tutto, una speranza che solo apparentemente contraddice diversi e generalmente accettati “simboli”.
Tutti abbiamo detto, tutti ci hanno detto: L’Aquila tornerà a volare. Il senso forse un po’ oleografico se non retorico del volo inteso come rinascita, ma che Patrizia trasfigura e traduce in un diverso sentimento, nel timore che quel volo auspicato da tutti possa diventare un volo “altrove”.
No. Patrizia non vuole. Non vuole che L’Aquila voli “via”. E’ pronta a curarle le ali ferite, ma è altrettanto pronta ad ingabbiarla su queste rocce, come in antico si faceva con le povere aquile rinchiuse nella “piccola grotta” davanti alla Piscina comunale e, indietro nei secoli, alle spalle del Municipio, in quella che ancora si chiama “via delle aquile”.
L’Aquila di Patrizia deve rimanere qui, magari ad “ali spalancate”, ma ben ancorata coi suoi artigli a queste pietre naturali ed artificiali, sulle rocce del colle e sui monumenti che vi risiedono da secoli. Chi ama questa Città ne ha sempre cantato la bellezza. Chi lo ha fatto con animo poetico, come ora Patrizia Tocci, ha esaltato sentimenti di viscerale appartenenza, di possesso amoroso.
E’ per questo che mi piace chiudere le mie poche parole accostando La città che voleva volare, florilegio aquilano pur contaminato dal dolore dell’oggi, ad altri capolavori della tradizione cittadina, culturale e poetica: alle Piazze aquilane lette e cantate nelle più riposte tracce dall’amico Elio Peretti e, andando indietro nel tempo e nei ricordi, a quella Via San Martino del compianto Giuseppe Porto, sguardo struggente e innamorato, poema e confessione insieme. Grazie a Giuseppe e ad Elio, ed ora, grazie a Patrizia.


25 Gennaio 2010

Categoria : Cultura
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