Sul processo breve
L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) – Due filosofie antitetiche emergono dal recente dibattito politico sulla riduzione della durata del processo, il cui Disegno di legge è passato oggi 20 gennaio in Senato, fra mille proteste da parte della minoranza e con momenti di tensione nel corso della seduta, quando i rappresentati dell’Idv hanno issato in Aula cartelli con le scritte: ”Berlusconi fatti processare” e ”muoiono processi Cirio-Parmalat” oppure ”la giustizia e’ morta”. Dicevamo che esistono due modi per guardare all’amministrazione dei processi: il primo che può essere definito “statalista” e l’altro di tipo prettamente liberale. La prima impostazione vede lo Stato, per mezzo degli organi detentori del potere giurisdizionale, investito del Diritto, a tutela della “sicurezza collettiva” (o, come lamentava Benedetto Croce parlando del regno di Napoli retto dai Borboni, della oligarchia dominante), nel pieno diritto di poter tenere un cittadino sotto processo o sotto pressione per tutto il tempo ritenuto opportuno. Il concetto implica che l’errore giudiziario o la persecuzione giudiziaria siano tollerati perché, per la sicurezza della società, si ritiene più opportuno che un presunto innocente venga condannato ingiustamente e che la sua vita venga rovinata, piuttosto che un presunto criminale venga lasciato a piede libero. In questo tipo di Stato è accettabile che un cittadino viva sotto processo per tutta una vita o per un tempo indefinito deciso da chi lo giudica, e non da leggi precise. La visione più liberale della Giustizia pone invece al centro dell’attenzione il diritto del cittadino a decidere della propria vita, perché non resta per lunghi anni in attesa di condanna o di assoluzione definitiva (in Italia anche a 23 anni per il passaggio in giudicato). Ora la questione è già stata affrontata nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali o Cedu, trattato internazionale elaborato dal Consiglio d’Europa, firmato a Roma il 4 novembre 1950 e ratificato da tutti i 47 Stati membri del Consiglio di Europa (giugno 2007). In Italia la Cedu è stata recepita con legge 848 del 1955. Per lunghi anni i giudici italiani hanno negato l’applicabilità diretta della Convenzione nel nostro ordinamento, costringendo le vittime di eventuali violazioni a far ricorso (dall’agosto 1973) alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con sede a Strasburgo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha constatato in numerose cause l’esistenza in Italia di una prassi contraria alla Convenzione. Con la legge di revisione costituzionale 2/99, il Parlamento italiano ha deciso d’inserire il principio dell’equo processo nella Costituzione. L’articolo 111 della Carta, nella sua nuova formulazione e nelle sue parti pertinenti, recita testualmente “La legge ne assicura la ragionevole durata”. La legge Pinto (89/01) obbligherebbe lo Stato a risarcire il cittadino vittima di un processo troppo lungo. In realtà è talmente farraginosa che sembra quasi essere stata ideata con lo scopo, tipico della legge italiana, di scoraggiare le vittime di lungaggini processuali a chiedere il giusto risarcimento. Ma tutto questo non è stato sufficiente, nei fatti, a garantire effettivamente una rapida ed efficiente amministrazione della giustizia e non non è un mistero che poco è cambiato in Italia, che resta un uno dei paesi con il meccanismo processuale più lento. Certamente la riforma della giustizia è un tema delicato ed interessa troppo da vicino il premier per non essere sospetto; ma questa scusa troppo spesso è stata usata per perseguire l’immobilismo riformatorio del sistema Italia. Al cittadino, infatti, non resta che sperare che il circolo vizioso della lentezza giurisdizionale venga finalmente spezzato ed un vero processo riformatorio, tanto legislativo quanto, soprattutto, sostanziale venga attuato, con tanto di riorganizzazione strutturale e d’organici della Magistratura. Ciò che, dopo la bocciatura del Csm al “lodo Alfano”, il Pdl sta portando avanti con i processi “abbreviati per legge”, non sono non cambia nei fatti la situazione, ma rischia di decretare “la fine di milizia di processi penali”, come ha dichiarato oggi all’AGI Anna Finocchiaro, Presidente dei senatori Pd. Di fatto, nel precedente Governo Berlusconi, con la cosiddetta “legge Cirielli”, fu praticamente dimezzato il tempo di prescrizione della pena; al punto che lo stesso proponente Cirielli di An, si dimise dall’incarico di relatore perché non tollerava che quella legge, che aveva portato le prescrizioni da 200 a 850.000, portasse il suo nome. Ed ha ragione, per me, il Comitato Intermagistrature, che riunisce la magistratura ordinaria, amministrativa e contabile e l’Avvocatura dello Stato, il quale il 18 scorso, aveva espresso “fortissime preoccupazioni per il ddl sul processo breve, che rischia di produrre conseguenze devastanti sull’intero sistema della giustizia italiana”. La preoccupazione delle toghe (ed anche mia), è che con Processo Breve si cancellerà ogni speranza di giustizia per le vittime di reati di particolare gravità, trasformando il processo penale in una tragica farsa, che in più ne stravolgerà completamente la fisionomia, con una conseguente sicura agonia dei riti alternativi e una profonda crisi della cultura delle garanzie e del contraddittorio. Non solo. A sua volta il processo contabile diverrà un’arma spuntata e sarà sempre più difficile reprimere fenomeni di malamministrazione. Sarà così impossibile, in moltissimi casi, conseguire il risarcimento del danno erariale, con la conseguente perdita di ingenti risorse finanziarie pubbliche. E nel campo della giustizia amministrativa, si determinerà una dilatazione dei tempi di definizione della stragrande maggioranza dei processi, attesa l’assoluta inadeguatezza delle risorse attualmente a disposizione. Infine, anche nel settore civile le conseguenze del disegno di legge potranno essere altrettanto gravi, determinandosi un rischioso disordine organizzativo con ulteriore svilimento della funzione giudiziaria e con effetti pregiudizievoli sulla tutela dei diritti dei cittadini. In questo modo, così come pensato dalla maggioranza, il Processo Breve serve molto a Berlusconi, ma non aiuta né i cittadini comuni, né una razionale amministrazione della Giustizia. Né sembra che le manovre del Governo siano migliori circa gli altri aspetti della Riforma della Giustizia, che si vorrebbe nella direzione degli interessi dei cittadini e tale da consentire un servizio credibile. In commissione Giustizia della Camera riprende il suo iter il legittimo impedimento, messo a punto dal capogruppo Pdl in commissione Enrico Costa e dal vicepresidente del gruppo Udc Michele Vietti. Per modificare la norma sono stati depositati 168 emendamenti: 70 dal Pd, 5 dall’Udc, 3 da Enrico La Loggia (Pdl) e circa 90 da Federico Palomba (Idv). E si procede anche verso un ddl intercettazioni, per il quale l’ufficio di presidenza della commissione fisserà domani il termine per la presentazione degli emendamenti. Il Governo ha oggi dichiarato che sul fronte delle riforme costituzionali, si andrà avanti aprendo due tavoli distinti: quello per la giustizia e quello per le riforme istituzionali, il primo presieduto da Alfano, l’altro dal ministro leghista Roberto Calderoni. Ma il problema non è né di numero di tavoli né di presidenze, ma dell’obbiettiva impossibilità di discutere, con ddl approvati sempre e solo a “colpi di maggioranza”. Oggi riecheggiano le parole pronunciate a fine novembre da Gianfraco Fini:” Il processo breve è una cosa, la riforma un’altra”, non solo segno inequivocabile fra i tanti di un nuovo strappo con i falchi del Pdl sul fronte caldo della giustizia; ma concreta speranza di una destra riformista, libertaria e capace di dialogo. Dalle recenti e numerose dichiarazioni dell’ex leader di An si comprende che serve ben altro (risorse e mezzi) per rimettere in moto la macchina della giustizia ed anche che non si può nascondere agli italiani, che il ddl, nato da un patto fra lo stesso Fini e Berlusconi, ha fra i suoi obiettivi quello di proteggere il Cavaliere dai processi. E allora, nonostante la vittoria strappata in Senato, si comprende il perché delle parole di Berlusconi che, intervistato sull’argomento all’uscita da un pranzo con il cardinale Camillo Ruini, all’interno del Seminario minore romano, a cui ha preso parte anche il sottosegretario Gianni Letta, ha dichiarato: ”Il mio parere è negativo perché i tempi, quelli introdotti con questa nuova legge, non sono ragionevoli. Io vorrei che fossero ancora più brevi. Dico che i tempi introdotti da questa legge, pur col vantaggio di essere certi sono ancora tempi eccessivi”.
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