Ditte criminali agli arresti: appalti per 22 milioni e mezzo di euro
L’Aquila – Alle ditte i cui amministratori sono finiti oggi in carcere erano stati affidati appalti edili relativi all’attivita’ di ricostruzione post-sisma, della citta’ dell’Aquila e di altri Comuni del cratere, per circa 22 milioni e mezzo di euro. In particolare, la manodopera di nazionalita’ romena a basso costo veniva impiegata a L’Aquila nell’aggregato di via Verdi e su corso Vittorio Emanuele (importo lavori 15 milioni e 272 mila euro), in quello su via Bominaco (4 milioni e 135 mila euro) entrambi appaltati al consorzio Sulter Scarl amministrato da Francesco Salvatore e Massimo Di Donato. Gli operai dell’est Europa, inoltre, sono stati trovati al lavoro in un cantiere del Comune di Vittorito (1 milione 593 mila euro) e in uno di Pratola Peligna (1 milione 486 mila euro), entrambi appaltati all’impresa “Salvatore & Di Meo”. Le indagini condotte dai carabinieri sono andate avanti per circa un anno e mezzo e comunque fino a pochi giorni fa. A tutti gli arrestati viene contesta l’associazione per delinquerde poiche’ – si legge in un passo dell’ordinanza di custodia cautelare – “si associavano tra loro allo scopo di commettre una serie indeterminata di reati fiscali e di autoriciclaggio nonche’ di intermediazione illecita e sfruttamnto del lavoro”. “In particolare gli indagati (nell’inchiesta non ce ne sono atri, almeno per il momento, ndr) avviavano una complessa organizzazione nella quale Nicolae Otescu e Antonio D’Errico attraverso le ditte romene da loro gestite, la Ni-To Costruetii Civili srl e To-Ni Roit Edilizia srl, procuravano a Francesco Salvatore, Panfilo Di Meo, Massimo Di Donato e Giancarlo Di Bartolomeo e alle ditte gestite, anche di fatto, dai medesimi Meg srl, Salvatore & Di Marco srl, Salvatore & Di Marco e C Snc ed al consorzio Sulter Scarl, manodopera a basso costo di nazionalita’ romena”, “giustificandone formalmente la presenza mediante ricorso al contratto di distacco comunitario, applicato in totale carenza dei suoi presupposti, escamotage posto in essere – spiega il gip – al fine di celare sia la mera intermediazione di manodopera che lo sfruttamento dei lavoratori”. Con questo ‘modus operandi’ i titolari delle ditte italiane venivano in possesso di “documenti fiscali utilizzati sia ai fini dell’evasione delle imposte che per la costituzione di fondi neri da reimpiegare in attivita’ economiche e speculative, fondi realizzati con la provvista costituente parte dell’utile della complessa attivita’ illecita”. Stando sempre a quanto verificato dagli investigatori prima e accertato dagli inquirenti poi, Otescu e D’Errico “provvedevano al graduale spostamento delle somme accreditate sui conti romeni delle ditte romene, al prelevamento delle stesse in Romania e alla loro restituzione ‘in nero’, nel territorio italiano”, agli altri quattro indagati, “detratta una percentuale per la commissione pari all’incirca al 10% dell’importo restituito”. In buona sostanza i soldi che riuscivano a ricavare erano parte del frutto della differenza tra i reali salari e quelli che invece avrebbero dovuto realmente percepire gli operai romeni. Sia D’Errico che Otescu nel corso di un controllo della Finanza (il primo avvenuto il 28 febbraio 2015, l’altro il primo maggio scorso) erano stati trovati in possesso di una consistente somma di denaro in contanti, i totale circa 36 mila euro. Entrambi stavano tornando in Abruzzo dalla Romania.
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