Il nuovo vento spartitorio a danno dell’Aquila
L’Aquila – LA DIASPORA AQUILANA ANCORA LONTANA DALLA REALTA’ VISSUTA NEL PASSATO -
LA CITTADINANZA NON SIA PIU’ SOLO DOCUMENTO – (Foto: in evidenza Esposito, sotto foto storiche dei disordini per il capoluogo nel 1971) –
di AMEDEO ESPOSITO -
Se qualcuno pensa d’essere fuori dal lontano esasperato campanilismo Dc-Pci, degli anni precedenti la fine dei partiti, dove vi era posto per tutti, tranne che per L’Aquila, si illude, o è abbagliato dall’onda alta del “nuovo” capoluogo di Regione.
Per un doveroso riconoscimento – si dice – delle vocazioni d’arte e professionali insite nella futura città, alle prese con la sua ricostruzione materiale e ancor più morale, irrinunciabile da ogni cittadino a qualunque livello.
Par che ancor incomba sulla città la maledizione che i Padri della costituzione vollero – da patrigni – far cadere sui cittadini abruzzesi ai quali fu rimessa – contrariamente a ciò che fu statuito per le altre regioni – la scelta del capoluogo. Provocando i danni che tutti sappiamo, di prima e di dopo (un dopo lunghissimo) che non si limitarono alle sole rivolte dell’Aquila e di Pescara.
Non sfugge a nessuno che quel clima (malsano ed esplosivo che trova terreno fertile in alcune frange politiche di contestazione permanente) va riproponendosi subdolamente oggi, tal quale alle deleterie proposte spartitorie Dc-Pci, ideate, molto spesso, sugli elicotteri che atterravano o si alzavano da Gissi. Emblematica l’elusione della legge, che consentì il primo strappo: all’Aquila l’ispettorato ed a Pescara l’ufficio regionale del lavoro.
Ed è su questa lunghezza d’onda il recente decreto legislativo sulla “razionalizzazione e la semplificazione dell’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale”, in cui si “propone” l’istituzione della sede regionale per l’Abruzzo fuori del capoluogo dove – paradosso dei paradossi – “non è disponibile alcun immobile, mentre “è possibile disporre di una sede capiente a Pescara”, per accogliere gli operatori del nuovo ente.
Occorre dire che le antiche decisioni spartitorie erano senz’altro più sofisticate.
Sostenere che una città, anche se terremotata, non possegga un edificio adatto ad ospitare la nuova struttura è certamente atto mortificante per coloro che l’hanno pensato e scritto e che Renzi dovrebbe segnare con la sua matita rosso-blu (o meglio, marcare con una lettera di licenziamento).
Come è mortificante per la città sentir dire che l’Ater (azienda territoriale, ex istituto case popolari) debba entrare da subito nella progettata fusione con le analoghe altre aziende esistenti in Abruzzo. Si sa che in questo momento l’Ater aquilana ha denaro – anche se non in mano – per la ricostruzione del suo patrimonio abitativo distrutto dal terremoto. Mentre le altre Ater sono tutte in profondo rosso, per effetto delle dissennate amministrazioni e per gli stipendi d’oro elargiti per decenni ai dirigenti.
Non va dubbio che in questo caso la Regione voglia risanare il tutto col terremoto. Certamente, in una situazione normale, sarebbe giustificato che chi è in difficoltà vada aiutato da chi ha di più.
E qui la domanda: si è per L’Aquila in una situazione normale?
Anche lo Stato sta reiterando alcune situazioni di sperpero, pur ponendo alcuni paletti ( vedi i Tar) nel ridimensionare l’Abruzzo virtuoso, quello che si conobbe dopo la seconda guerra mondiale.
Perché tutto questo accade?
Perché il vento del più forte ( o della dittatura della maggioranza, come in passato) si è rialzato su L’Aquila, costretta ancora ad essere il luogo dove la cittadinanza è solo un documento, anche se cerca disperatamente di ritornare ad essere realtà vissuta, nella pienezza della sua anima aquilana, nell’ambito della Comunità nazionale, com’è doveroso che sia.
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