I ricordi de Il Tempo (5) – Vajont, che ferita – Una sentenza “terribile” che sconvolse tutti
L’Aquila – (di Gianfranco Colacito) – (Foto: in bianco e nero foto del processo a L’Aquila, a colori il palazzo di giustizia appena inaugurato) – La sentenza della corte d’appello dell’Aquila che ha assolto la Commissione grandi rischi (ed eccezione del prof. De Bernardinis) riporta alla mente del cronista quella del disastro del Vajont, nel 1969, emessa dal tribunale dell’Aquila. Il fior fiore dei tecnici e dei vip che erano in serpa allora nei grandi enti energetici, imputati, ma tutti assolti o quasi. Un disastro con 2.000 morti, ma senza colpevoli.
Di diverso avviso fu, in appello, la corte aquilana, che inflisse delle condanne anche pesanti. Una parziale riparazione ad una ferita profonda.
Chi scrive era, allora, 1968, cronista di giudiziaria de Il Tempo d’Abruzzo. I primi servizi per il giornale romano che oggi ha cancellato l’inserto abruzzese, ormai dimenticato con singolare opportunismo e ipocrisia da chi conta in questa regione incapace persino di indignarsi.
Qualche ricordo di quel processo, della sentenza, degli sdegni per le assoluzioni, del clamore internazionale di quel giudizio. Quello anche, dopo il disastro, processo a scienziati e tecnici, oltre che allo strapotere di enti e istituzioni. Non alla scienza. Caso mai, alla fame di guadagno e di profitto che si celava (perché, oggi no?) dietro interessi giganteschi. Nel bacino idroelettrico del Vajont (Belluno) tenuto da una vertiginosa diga, precipitò un’immane frana, che fece tracimare una montagna d’acqua oltre la diga, distrusse Longarone e parte della Valle del Piave. 2.000 vittime. La frana, per l’accusa, era da tempo temuta e prevista, c’erano mille “segni” premonitori, crepe, boati, cedimenti nel paretone del Monte Toc. E alla fine, ottobre 1963, catastrofe biblica e distruzione.
Appunti del cronista. Le parti civili, nel processo assegnato a L’Aquila per legittima suspicione, erano migliaia, ma divennero sempre meno numerose, molti rinunciarono persino a comparire. Succosi risarcimenti in denaro venivano erogati dagli enti alla sbarra. Molte volte accettati, poche volte sdegnosamente rifiutati. I morti si pagavano, scrivemmo, secondo turpi tariffari.
Il Tempo pubblicava senza aver paura di nessuno, eppure era un foglio vicino ai grandi potentati, politicamente liberal-democristiano. Sempre onesto nel suo dovere di cronaca. Al quale obbedimmo sfidando potentissimi e agguerriti avvocati difensori, che ci guardavano male. Ma la gente del Vajont – dolorosamente presente in qualche udienza – ci guardava bene. Anche quelli che avevano accettato i risarcimenti.
Il processo e le cronache avvincevano, c’erano giornalisti di mezzo mondo, alcuni seguirono per mesi le udienze arrivate fino al 1969 e alla sentenza (assolutoria o quasi…), ripresa in diretta alle 13,30 da un Tg1Rai e da un cronista molto speciale, che si chiamava Bruno Vespa.
Tempo dopo, molto tempo dopo, processo d’appello – con condanna – e Cassazione, con conferma. Un grande evento giudiziario, che mise l’Italia sotto gli occhi del mondo. Non molto onorevolmente. Almeno in primo grado.
Oggi, in ben diverse circostanze, la giustizia è ancora nel mirino di un’opinione pubblica sfiduciata , benchè non fervorosa come allora, e questo resta un mistero da capire.
Vedremo in Cassazione cosa accadrà. E quanti si accontenteranno di ciò che sarà loro possibile ottenere dallo Stato “che si assolve”, come è stato amaramente scritto da molti.
I ricordi del cronista de Il Tempo restano, comunque, indelebili. Una delle tante scottanti pagine della storia di questo paese. Giudiziaria e non soltanto. Forse soprattutto morale ed etica, perché è scritto che ognuno ha lo Stato che merita.
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