100 anni dal sisma, frammenti letterari
L’Aquila – (di Mauro Rosati, archeoclub) – (ore 0,30) – LA MARSICA “PRIMA” DEL TERREMOTO, FIN DA ETA’ ROMANA – (Foto da archivi storici, Avezzano e Pescina, e una mappa con l’epicentro) - In 100 anni si è detto e si è scritto molto, e sotto molteplici aspetti, sul violento terremoto che colpì la Marsica e il Sorano nel primo mattino del 13 gennaio 1915. Un sisma di magnitudo momento pari a 7 che, favorito anche da effetti di amplificazione locali e da altri fattori, in diversi casi azzerò interi centri abitati; Avezzano e Sora i maggiori, ma non vanno dimenticati quelli minori (Cappelle de’ Marsi, Trasacco, Luco de’ Marsi, tanto per citarne alcuni).
Molto estesa l’area colpita, tanto che la stessa Roma registrò alcuni danni. L’impatto emotivo e materiale furono tali che ancor oggi c’è memoria dei racconti tramandati dalle testimonianze di chi visse direttamente quell’evento, racconti passati ai figli e quindi a nipoti e pronipoti, oltre ovviamente alle tante documentazioni a mezzo di immagini.
Con la distruzione materiale degli edifici sembrò andar distrutta anche gran parte della memoria di quanto la storia aveva depositato nei secoli in quelle terre ma, a un’analisi più attenta, non fu proprio così. Innanzitutto perché, dove più e dove meno, a seconda del livello di distruzione, qualcosa di materiale e tangibile sopravvisse tanto che camminando nei centri abitati ricostruiti, tra le strade novecentesche, ogni tanto sono evidenti tracce e testimonianze più o meno integre della storia precedente al violento sisma: basti pensare a quanto resta del Castello Orsini di Avezzano, o alla chiesa di San Pietro in Albe, quasi completamente sbriciolata dal sisma ma poi ricostruita così come la si vede oggi con i pregevoli ambone e iconostasi custoditi al suo interno; o ancora il Castello Piccolomini e il Convento di Santa Maria Valleverde a Celano; i resti di Santa Sabina, fino al 1580 cattedrale dei Marsi, a San Benedetto dei Marsi, antica Marruvium; la chiesa parrocchiale di Santa Lucia a Magliano de’ Marsi, con la sua facciata romanica, e così via. Testimonianze che si fanno ovviamente tanto più cospicue quanto meno fu colpito ciascun centro abitato.
Oltre a quelle testimonianze materiali che fortunatamente il terremoto del 1915 non riuscì a cancellare, anche la letteratura ci può aiutare ad avere un’idea della storia precedente della Marsica, fin dall’età romana. Senza alcuna pretesa, questo contributo vuole essere un ricordo di quanto accadde il 13 gennaio di 100 anni fa; un ricordo che non vuole però rievocare i numeri e le statistiche del sisma ma vuole invece essere un invito, per chi non lo avesse ancora fatto, a riscoprire la storia della Marsica, prima e durante i giorni dell’evento sismico, attraverso le ‘immagini’ che ci offre la letteratura.
Già Virgilio (I sec. a.C.), nel libro VII dell’“Eneide” cita i Marsi chiamandoli la ‘gente Marruvia’, dalla loro capitale Marruvium (la già citata San Benedetto dei Marsi), i quali avevano fama di ‘domatori’ di serpenti capaci di renderne innocui i veleni. A rappresentare i Marsi nel poema virgiliano è il sacerdote Umbrone, ‘incantatore’ di serpenti, che giunge nel Lazio unendosi alla coalizione italica per combattere i Troiani guidati da Enea; e quando Umbrone viene ucciso in combattimento Virgilio lo fa compiangere dalla selva di Angizia e dalle acque del Fucino (“Te nemus Anguitiae, vitreâ te Fucinus undâ / Te liquidi flevere lacus”). Anche Silio Italico (I sec d. C.), nel libro VIII del poema epico “Punica”, sottolinea la fama dei Marsi come incantatori e neutralizzatori di serpenti (“At Marsica pubes / Et bellare manu, et chelydris cantare soporem / Vipereumque herbis hebetare et carmine dentem”) e dei loro veleni (“domare venena”).
Se si fa un salto in avanti di diciotto secoli, risulta particolarmente interessante il diario di viaggio “Days near Rome” (1875), dell’inglese Augustus J. C. Hare, che apre una ‘finestra storica’ sull’Italia Centrale degli ultimi decenni dell’Ottocento quando l’autore intraprende un viaggio da Roma verso i territori limitrofi alla Capitale d’Italia; accanto alla narrazione il testo contiene anche alcuni disegni dal vero che ritraggono scorci di alcuni dei luoghi attraversati. Non fa eccezione l’Abruzzo interno, del quale l’autore fornisce interessanti descrizioni; tali testimonianze assumono ancor più valore di documento storico quando egli attraversa le terre marsicane (volume II, capitolo XXIX “In the Marsica – The lago Fucino”) e poi anche il Sorano (volume II, capitolo XXX “Sora, and the land of Cicero”) poco più di quarant’anni prima che il violento terremoto del 1915 ne modificasse profondamente, ma non completamente, l’aspetto. Augustus J. C. Hare attraversa numerosi centri lungo il bacino del lago Fucino, da poco prosciugato, tra cui Avezzano di cui pubblica un disegno del Castello Orsini-Colonna così come si presentava prima della distruzione del 1915 e che descrive come un elegante antico castello “fondato dai Colonna” e “ completato dai Barberini”; del castello Orsini-Colonna di Avezzano esistono anche fotografie realizzate prima che il sisma ne distruggesse gran parte. Da Avezzano Hare muove poi verso la chiesa di San Pietro in Albe e quindi Alba Fucens, ricordando la grandezza passata dell’antica colonia romana nella quale furono relegati anche celebri prigionieri di guerra tra cui Siface, re dei Massesili di Numidia, e Perseo, re di Macedonia. Egli spazia poi verso la Marsica occidentale lungo la via Valeria fino a Carsoli mentre in un’altra escursione raggiunge le sponde orientali del bacino del Fucino passando per Luco e giungendo fino a Pescina e San Benedetto dei Marsi (“[…] San Benedetto, occupying the site of Marruvium, the capital of the Marsi […]”). L’itinerario contiene un passo in cui Hare, dopo aver riassunto le vicende che portarono al prosciugamento del Fucino, esprime una posizione critica sull’utilità del prosciugamento del lago e, nel descrivere il notevole costo dell’opera, riporta un celebre detto popolare: “O Torlonia secca il Fucino, o il Fucino secca Torlonia”.
Un importante documento che testimonia invece i giorni immediatamente successivi al sisma viene fornito dal danese Johannes Jørgensen, noto nella storia della letteratura come poeta nonché autore di alcune biografie di Santi, tra cui San Francesco d’Assisi, ma forse meno noto per aver raccontato quanto vide nel suo viaggio da Roma verso la Marsica al seguito di una delle molte spedizioni inviate in soccorso delle popolazioni colpite. Il suo racconto è stato pubblicato nuovamente in tempi recenti in un libricino dal titolo “Civita d’Antino”, dal nome del piccolo centro della Valle Roveto, uno tra quelli che subirono le maggiori distruzioni. Il riferimento a Civita d’Antino non era casuale in quanto il paese marsicano, per iniziativa del pittore danese Kristian Zahrtmann, a partire dal 1883 era stato sede di una fiorente scuola di pittori danesi che grazie all’ospitalità di una facoltosa famiglia locale si erano insediati in una casa del centro abitato la quale fungeva da residenza degli artisti durante i loro soggiorni. L’esperienza della scuola di Civita d’Antino si concluse bruscamente proprio a causa del sisma del 1915.
Gli spunti ovviamente possono essere ancora tanti altri e questi erano solo una piccolissima scelta, soggettiva, che, come già scritto sopra, voleva essere un modo per ricordare quanto accadde in Abruzzo il 13 gennaio di 100 anni fa e come anche attraverso uno dei più distruttivi eventi naturali italiani del II millennio alcuni fili della storia non si spezzarono ma continuarono il loro percorso. Questa continuità nonostante le distruzioni è ben sintetizzata nell’epigrafe commemorativa sul Monte Salviano che riferendosi ad Avezzano così si ‘rivolge’ al viandante: “Amico / la città che laggiù / alla tua vista si stende / non è quella dei nostri padri / di essa non restò / pietra su pietra / nel primo mattino / del 13 gennaio 1915. / Questa ha un altro volto / nel quale l’antico / si rischiara / non nel disegno / troppo diverso / ma nella forza dell’uomo / che tosto / riprese a camminare”.
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