Col groppo in gola, dentro L’Aquila perduta
L’Aquila – ( di Gianfranco Colacito) – Lo sentivamo come un dovere. Verso le pietre, le cupole, le macerie, le colonne imbracate e sventrate. I palazzi puntellati. Un dovere di chi ha avuto 18 anni tra queste cose, e poi trenta, e poi… fino al 6 aprile. Sentivamo il dovere di visitare, da soli e in silenzio, la città perduta. Il giorno 22 dicembre dell’anno non di grazia 2009. L’ultimo dell’altra vita, finita a primavera, anzi a Pasqua, in pochi secondi che sono scritti, ormai, nella storia della città di Federico. Il dovere l’abbiamo assolto, con il groppo in gola, come già un’altra volta raccontammo, dopo un’altra visita.
Dentro la città perduta, tanto non ti ferma nessuno. Sali lungo Federico II e vai, guardandoti attorno, dove vuoi. Giornata grigia, non fredda. Residui di neve sporca, foglie secche sotto i porticati, sgocciolio incessante dai tavolati che coprono il tunnel nel quale la gente cammina muta. Pochissima gente, i più con telecamera e macchina fotografica. Cortine e ponteggi, pezzi di pietra, residui di demolizioni. Prima scena straziante, la colonna del palazzo bianco dov’era la Madonnina, la più grande all’angolo verso la Standa, spezzata in verticale, ferita a morte.
Vetrine sporche, pavimenti sconnessi, poca pulizia: ancora una città in coma. In Piazza Duomo, caffè da Nurzia. C’è tanta gente, quasi tutti muti. Poca voglia di darsi il buon Natale: tutti sanno che non è affatto buono. Fuori gente con la faccia da impiegato di banca che respira la desolazione. Sull’ellisse della piazza baracche, tendoni, un’accozzaglia di presenze, reti, cantieri, gru, e scambi di richiami tra gli operai. I colombi non si vedono. Il contestato ultimo albero di Natale del 2008 non c’è. Magari potessimo ancora polemizzare su quello… Erano bei tempi, di ordinaria banalità, e non lo sapevamo.
Il porticato del corso è la desolazione fatta immagine. Sporco, vuoto, abbandonato da un popolo di strusciatori di professione che non strusceranno più tanto presto. Le colonne di due dei tre palazzoni più grandi sono imbracate. Figuriamoci dentro i palazzi cosa può essere accaduto.
Un tizio fermo immobile accanto ad un’edicola ci dice: “Grazie per quello che scrivete e dite in tv”. Per quel che serve… “D’accordo però lo dite, continuate, non abbiate paura”. No, paura no. E di chi? Tanto, pochi sembrano darsene per intesi. La gente sì, magari. Ma loro, quelli che contano, sono silenti. Forse indifferenti. A Piazza Regina Margherita un militare di vent’anni, sicuro di avere una forte autorità, ci intima: “L’autorizzazione oppure torni indietro”. Gli rispondiamo dandogli dei lei che non abbiamo autorizzazioni e ce ne andiamo. In quel mentre un signore e una signora, anziani, distinti, ci apostrofano: “Lei deve scrivere da qualche parte che quel coglione di Berlusconi deve smetterla di dire che è tutto a posto…”. Veramente, non gli abbiamo mai sentito frasi del genere. Perché dovremmo scriverlo? “Perché ecco, io devo andare a S.Bernardino e non mi fanno passare, dovrò fare un giro immenso. Perché non mi fanno passare, perché?”. Comprendiamo che è stravolto, forse dalla pena per una città in briciole. Ma inveisce ancora contro tutti. Gli chiediamo di farlo nel telefonino, in modo che si possa registrare ciò che dice, naturalmente con nome e cognome.
Sparisce in un baleno e la moglie ci sorride, stringendosi nelle spalle. Finita lì la scena, prendiamo verso la baraccopoli di viale Croce Rossa e finiamo negli ingorghi a catena più avanti. La visita nella città perduta, così per devozione, a Natale, è finita. Come ricordi, incontri, polemiche paesane, conoscenti sotto i portici, vetrine, luci, addobbi di tanti Natali rimasti chiusi nello zaino del passato. Di quando L’Aquila c’era e non le volevamo il bene dovuto. Ad una città si vuole bene, se ci vivi: a pietre e finestre, colonne, pareti, campanili, balconi, gatti randagi, scalinatelle, ciottoli, piantine umili spuntate tra le pietre, antiche e buie finestre. Magari alle persone assai meno, o almeno a tante di loro. Ma alla città, bene spontaneo, profondo. Ha ospitato la tua vita e partecipato al patrimonio dei ricordi, l’unico che con il sisma, pure di 9 Richter, non finisce un frantumi. L’unico davvero tuo e solo tuo. Con il groppo in gola, perché L’Aquila davvero non c’è: come Venezia, è – in centro – una maschera triste con le orbite vuote e scure. Un tenue volto pallido inclinato alla luce della Luna, un’entità devastata da furia oscura e primordiale, che Stefania Pezzopane chiamò “orco”.
Percepisci tutto il male del mondo al ricordo di quel sobbalzo cupo. Ha spezzato le nostre vite, inutile negarlo, inutile addolcire la pillola. E’ triste l’alberello di Natale in piazza Regina Margherita: vuole ricordarci però che mai si deve dire mai. Neppure quando il domani, onestamente, sembra impossibile, anche se non lo è. Risorsero nel 1703 e tre volte prima nei secoli indietro.
(Nelle foto Col di oggi 22 dicembre: L’albero di Natale in piazza Regina Margherita, e alcuni scorci del centro ferito a morte. In fondo, la baraccopoli ormai sterminata di Viale Croce Rossa)
Non c'è ancora nessun commento.