Ricordi de Il Tempo (3) – Che strizza quel candelotto di dinamite…


L’Aquila – (di G.Col.) – Tra i periodi di maggiore concitazione nella ormai scomparsa redazione aquilana de Il Tempo, 92 scale nel palazzo Federici in via Tre Marie, quello della cosiddetta rivolta per il capoluogo, 1971, documentata dalle foto storiche che pubblichiamo. Prima Pescara, poi – assai peggio – L’Aquila messa a fuoco dalla sommossa popolare in difesa del capoluogo regionale. Lo Statuto regionale appena nato già faceva danni: c’era scritto, in sostanza, che capoluogo abruzzese era L’Aquila, ma gli assessorati erano dislocati quasi tutti a Pescara e le riunioni di giunta e consiglio si potevano tenere “a L’Aquila o a Pescara”.
Apriti cielo. Forse nessuno dei rivoltosi aveva letto lo Statuto (che assegnava senza dubbio il trofeo del capoluogo a L’Aquila) . Forse nessuno sapeva perché si dovessero erigere barricate, appiccare fuochi, sfondare a sassate le porte a vetri del ristorante Tre Marie. Sassate scagliate da alcuni celerini (immortalati da una foto dell’ANSA) all’inseguimento dei frombolieri aquilani che si nascondevano in vicoli bui e portoni del centro. Dal buio partivano urla tipo “Pezzi di merda” per i celerini, che rispondevano: “’A vucchiacchiera ‘e ta sora”. E sparavano lacrimogeni. Traduciamo? Non serve. Dialoghi non celestiali, comunque, tra due colorite popolarità.
Se ne videro di tutti i colori, e nessuna bella. Una serie di episodi inutili e selvaggi, forze dell’ordine inferocite e manganellanti, persone spedite in ospedale, fumi e roghi, negozi e appartamenti assaltati, sedi dei partiti devastate. E tutto ciò non servì a nulla… Lo Statuto rimase invariato.
Noi de Il Tempo eravamo in centro e ogni sera per tornare a casa bisognava chiamare la prefettura, per ottenere che i celerini non ci bastonassero appena messo piede in strada. Se non arrivava l’ordine, erano manganellate e bombe lacrimonege a pioggia. In quel tempo fu prezioso un pesante eskimo con cappuccio impellicciato e mascherina per la bocca. Più volte ci evitò di inspirare lacrimogeni e fumo di roghi. Un’altra volta fu preziosa la porta della chiesa dei Gesuiti, in cui ci infilammo correndo per sfuggire ad un drappello di poliziotti bercianti e quasi febbricitanti di rabbia. In chiesa non osarono scaraventarsi, ma tememmo che lo facessero… e forse ci mancò poco.
Ovviamente, molti odiavano i giornalisti e qualsiasi cosa scrivessero sui giornali, tentando di raccontare con obiettività la rivolta. Una parola… Sicuramente a molti non piaceva la cronaca de Il Tempo. Ne fu la prova un candelotto di dinamite con una corta miccia bruciacchiata, che trovammo una mattina alle 9 arrivando in redazione. Era stato deposto davanti alla porta verniciata di color nocciola. O si era spenta la miccia, forse umida, o l’avevano spenta, lasciando la dinamite come avvertimento. Vai a sapere.
La strizza ci fu, e come. Nel momento in cui svoltando dall’ultima rampa di scale fummo nel pianerottolo davanti alla porta, vedemmo il candelotto ma non potevamo sapere che era inoffensivo. Pensammo che stesse ancora bruciando la miccia e fu paura, tanta paura, con corsa a precipizio in discesa per le scale.
Il botto non ci fu, e tornammo su capendo che la dinamite era inerte, perché la miccia era spenta da tempo. Poco dopo, la polizia pullulava e le domande piovevano. Non se ne seppe più nulla, naturalmente. Avevano ben altro da pensare che a quattro rompicoglioni di giornalisti. E non arrivò mai il secondo candelotto. Non fu l’unica giornata di paura. Gli anni seguenti ci avrebbero insegnato che, invece di fare i giornalisti, avremmo fatto meglio a scegliere una scrivania al Catasto. Stavano arrivando gli anni di piombo del terrorismo, che ci riguardarono, a L’Aquila, anche se di striscio. Ne riparleremo in un prossimo ricordo.


28 Novembre 2014

Categoria : Cronaca
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