Ricordi de Il Tempo – Strizza e mano monca
L’Aquila – (di G.Col.) – IL CRONISTA E LE AVVENTURE DENTRO E FUORI DALLA REDAZIONE DEL QUOTIDIANO CHE NON C’E’ PIU’ – (Foto in basso: due modelli di telescriventi degli anni ’70) – Durante gli anni di lavoro per Il Tempo d’Abruzzo, ci siamo sempre occupati di cronaca giudiziaria (e nera all’occorrenza), più frequentemente rispetto ad altri temi. La politica non ci veniva affidata molto spesso, perché il capo redazione non si fidava. Temeva giudizi troppo disinvolti e cronache troppo fedeli ai fatti. Anche se, tutto sommato, non disdegnava quel pizzico di scapigliatura allora davvero insolito nei giornali, che ci piaceva usare.
A L’Aquila non c’erano grandi fatti di cronaca nera, ogni due o tre anni però il morto ci scappava. Ammazzato, naturalmente. Insomma, omicidi. Le cronache giudiziarie erano molto più movimentate e ricche di spunti in cui sguazzare, il pane del giornalismo di allora.
Vi fu delitto, rimasto – era quasi la regola – senza colpevoli. Un tizio venne trovato morto nei dintorni della stazione ferroviaria, e si parlava di omosessualità, roba torbida, quasi tabù per l’epoca. Le indagini non portarono a conclusioni certe, ma fu sospettato un uomo con una mano semimonca. Un individuo che veniva descritto come pericoloso e soprattutto come dotato di forza prodigiosa nella mano valida. Tenuto sotto torchio dalla polizia, alla fine rimase un sospettato. Il delitto entrò negli archivi dei casi irrisolti, molto più corposi rispetto a quelli dei casi chiariti. Ma ambedue scarni, perché allora la vita non era turbolente e sanguinosa come oggi.
Un giorno verso le 13,30 eravamo da soli in redazione, al terzo piano di via Tre Marie: 92 scalini per inerpicarsi fin lassù. C’era il malvezzo di lasciare sempre la porta socchiusa con una molla di richiamo che non faceva scattare la serratura. Insomma, poteva entrare chiunque. Seduti alla telescrivente, picchiettavamo il testo di un articolo da trasmettere a Roma. Il nastro giallo si perforava e ogni disposizione diversa di forellini rappresentava una parola. Poi premendo un bottone, tutto partiva per Roma e in un istante era pronto per la composizione. Meraviglie dell’epoca, goffe ingenuità di fronte alle tecnologie informatiche di oggi…
Con la coda dell’occhio vedemmo in piedi accanto alla nostra sedia una persona, entrata senza far rumore in redazione. Provammo strizza autentica: era l’uomo sospettato dell’omicidio, ghigno beffardo e mano offesa coperta da cuoio nero. Molto vicina alla nostra gola, perché eravamo seduti a scrivere.
Ricordammo che si lui si diceva: “Ha una forza tremenda nella mano valida”. Era di bassa statura, ma robusto e soprattutto minaccioso. Non facciamola lunga: riuscimmo a parlarci, a convincerlo che nessuno ce l’aveva con lui, che sul giornale non mettevamo neppure il suo nome. Ma lui era invelenito da fatto che in città tutti parlavano ugualmente di lui e lo additavano.
Chi sa come sarebbe finita (forse male) se non fosse entrato rumorosamente il fattorino dei pacchi postali, un individuo alto due metri, che conoscevamo grazie a chiacchiere da locanda scambiate casualmente. Doveva consegnare un pesante plico contenente carta e andare a prenderne un altro giù per le 92 scale, per poi risalire. Il monco capì che per lui era arrivata solo l’ora di andarsene e senza una parola infatti se ne andò scendendo insieme con il fattorino.
Da allora, la porta della redazione rimase sempre più spesso chiusa. Avevamo segretamente allentato la molla di richiamo. Ma non fu quella l’unica occasione di aver paura in quella redazione. Ve lo racconteremo in un altro ricordo.
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