Il vero padre del “centro-sinistra”
L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) – Venticinque anni fa, precisamente il 18 settembre del 1984, moriva Riccardo Lombardi, socialista, classe 1901, un uomo ed un politico che ci ha aiutato, col suo insegnamento, ad essere uomini liberi e ci ha fatto capire l’orgoglio d’essere parte di una sinistra libertaria e riformista, lontana anni luce, per la sua stessa natura, dal dogmatismo totalitario di matrice comunista. Lombardi era, suo malgrado, un “personaggio”, in contraddizione, comunque, con la ritrosia, la serietà, l’aspetto perfino arcigno con il quale veniva spesso descritto o disegnato. Alto, magro, un po’ curvo per i postumi d’una bastonatura subita ad opera dei fascisti nel 1930, egli portò nel Psi, cui aderì dopo lo scioglimento del partito d’Azione, quell’inquietudine che dell’”azioniamo” era un tratto distintivo. Nativo di Regalbuto in provincia di Enna, s’era laureato a Milano in ingegneria. Per meriti resistenziali venne nominato nel ’45 prefetto di Milano. Subito dopo, diventò ministro. Ma al centro della sua vita sarebbe stato, nei due decenni successivi e senza cariche ufficiali, il riformismo in Italia. Gli deve molto non soltanto la fraseologia politica (dal termine “contestazione”, a lui caro, all’insistenza quasi missionaria sulle “riforme di struttura”), ma anche un’arte di governo eventualmente intesa come coerenza propositiva. Del centrosinistra – quello originario, interpretato nel 1962 dal governo Fanfani – Lombardi fu il vero padre. La nazionalizzazione dell’industria elettrica fu in gran parte frutto della sua tenacia. Le folate di impopolarità originate da quel provvedimento non riuscirono a stroncarlo. A lungo, l’aggettivo “lombardiano” designò una sinistra sicura delle proprie credenziali democratiche, avversa ai compromessi, costante nel proporre una programmazione che a tanti conclamati liberisti pareva in contrasto con l’inveterata pratica dell’arbitrio. Fu così che Lombardi vide troppe speranze trasformarsi in angustie. Del “suo” centrosinistra restò quasi soltanto il nome. Dal litigio con Pietro Nenni (1963) fino alla morte (1984), il suo isolamento non fece che crescere. In luogo dell’alternativa di sinistra, da lui auspicata, trionfò il compromesso storico con quella Dc di cui sempre più diffidava. Finché, nell’èra di Craxi, il dirsi “lombardiani” nel Psi assunse l’aerea rispettabilità d’un “flatus vocis”. I suoi discorsi rappresentano una testimonianza impagabile, a tema unico: l’Italia come avrebbe potuto essere. Riccardo Lombardi è stato spesso criticato per quella che è stata chiamata la sua presbiopia politica, per la sua capacità, appunto, di vedere politicamente lontano, perdendo forse di vista il dato politico immediato o forse, meglio, quello partitico immediato. Gli scriveva Mario Alberto Rollier il 10 ottobre 1947, all’indomani della fine del Partito d’Azione: “Vorrei sapere cosa hai in animo di fare e se hai un programma di azione concreta, perché uomini di stato in Italia non ce ne sono e tu sei uno dei pochi e, fra i nostri deputati, l’unico. Aggiungo: pessimo uomo di partito, pero’”. A me, invece, piace pensare a lui come ad un lucido visionario, con un’espressione forse volutamente contraddittoria ma che rende, a mio parere, il senso della sua riflessione politica. Una lucidità visionaria che non è ambiguità, non è incertezza, non è incoerenza, ma capacità di cogliere il senso profondo delle cose, con lucidità, ma senza arroganza, con utopia, ma senza perdere il contatto con la realtà e senza recriminazioni (“il muro del pianto non è di mio gusto”, scrive nella già citata lettera a Giuseppe Speranzini) anche perché, come ricorda Arialdo Banfi, Lombardi era solito dire che “a spaccare si fa più presto che a unire”. Che cosa ci manca di Lombardi? Ci manca, a mio parere, il segno della sua contraddizione, la scommessa fallita ma tenacemente indicata di tenere insieme la democrazia coi suoi limiti e l’idea di un socialismo radicale, proprio quello che oggi a tutta la politica e alla sinistra soprattutto sembra mancare. Ed in questo clima di deriva barbarica e rissosa fisicità anche non solo verbale; ci mancano i suoi richiami ad una vera “azione rivoluzionaria”, che deve essere “riformatrice e non riformista”, in modo da pervenire il piu’ rapidamente possibile alla riforma della struttura dello Stato, la dove tale riforma si renda necessaria per i tempi mutati e le mutate sensibilità ed esigenze della cittadinanza. E, per venire a noi aquilani, ci manca di Lombardi il filo rosso della concretezza, una concretezza, pero’, come abbiamo visto, del tutto particolare, una concretezza che è del fare, ma anche del pensare: una attivazione del più gran numero possibile di lavoratori di tutti i ceti, che siano interessati politicamente, praticamente ed economicamente ad un nuovo progetto di ricostruzione e di sviluppo, senza le trappole dell’assenzialismo statale, detronizzante e spersonalizzante.
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