Non siamo in Cile, ma nella ex L’Aquila…
L’Aquila – Scrive Franco Taccia: “Edoardo Hughes Galeano, nato a Montevideo nel 1940, grande della scrittura e della letteratura e appassionatissimo di calcio, nel lontano 1997 scrisse “Splendori e miserie del gioco del calcio”, da anni introvabile, purtroppo per chi non abbia avuto il piacere di leggerlo.
L’opera influenzata, come ovvio, dalla passione dell’autore per la sfera di cuoio e purtroppo dal contesto politico/sociale del sud America in quegli anni e principalmente in quelli precedenti, descrive quella una sorta di filo comune tra la passione del popolo, i disagi del medesimo per la crisi economica endemica, il calcio valvola di sfogo ahimè soltanto domenicale, e naturalmente presenta una lucidissima analisi della progressiva distruzione ad opera dell’industria dello spettacolo, degli interessi mai saziati, dei parassiti che dovunque allignano ( e figuriamoci se potevano mancare intorno al pallone) di quello che dovrebbe essere un gioco.
«La storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare. In questo mondo di fine secolo (siamo nel 1997, ricordiamolo) , il calcio professionistico condanna ciò che è inutile, ed è inutile ciò che non rende. E a nessuno porta guadagno quella follia che rende l’uomo bambino per un attimo, lo fa giocare come gioca il bambino con il palloncino o come gioca il gatto col gomitolo di lana. Il gioco si è trasformato in spettacolo, con molti protagonisti e pochi spettatori, calcio da guardare, e lo spettacolo si è trasformato in uno degli affari più lucrosi del mondo…”
Ma siamo a L’Aquila e parlavamo della partita di sabato, liquidata dalle cronache sportive con il solito monotono elenco fatto di minuti durante i quali si è svolta l’azione, di nomi di “attori” che hanno centrato il palo o la “ragnatela” all’incrocio dei pali, e di altri attori maldestri, quali l’arbitro e i segnalinee che tali non dovrebbero essere visto che il termine “arbitro” sta ad indicare chi dovrebbe dirimere, in modo imparziale, le controversie. Che nel calcio, misera fin che vogliamo, “occupazione” settimanale di tanta gente che per pura passione, anche con un freddo boja, o con la pioggia , si porta ad esempio al vecchio Comunale de L’Aquila per vedere la partita, consistono nel giudicare applicando il regolamento scritto quelo che accade sul campo. Il regolamento che ad esempio prevede che se uno tira per la maglia un avversario facendolo cadere debba essere punito , specie se il “giudice” è a 2 metri e ce l’ha davanti agli occhi. Ma qui non siamo in Cile o in Argentina ai tempi delle dittature, ma solo in una ex città nella quale la partita di calcio è uno dei pochi momenti di aggregazione, se non l’unico, visto che la passeggiata per il corso non esiste più e che i centri commerciali non gli somigliano affatto.
Ma io ho scomodato nientemeno che Galeano, perdonatemi. Per dire che anche per le migliaia di persone che sabato sono tornate a casa “schifate” da molti “passi” della recita arbitrale, lo spirito con cui erano entrate prima dell’inizio della gara era quello descritto dallo scrittore, la partecipazione ad un gioco che si raggiunge anche stando solo a guardare.
Ma sembra che qualcuno abbia già deciso che alla fine del gioco l’ago della bilancia penderà da una parte, come una certa “torre” in una certa città .
Come se andando a vedere un film, spettacolo per antonomasia, al momento di entrare in sala ti dicessero in quale scena lo sceriffo tira fuori la colt, se sarà lui a colpire il fuorilegge o se questo riuscirà a fuggire a cavallo. Con L’Aquila calcio sembra un vizio ma lo sceriffo da un po di tempo comincia a non azzeccarci più con la mira.
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