Con Gadda, riflettiamo su L’Aquila
L’Aquila – Da Franco Taccia riceviamo: “Caro Direttore, mi permetto di esortare tutti a rileggere quanto scrisse nel suo libro, “Le meraviglie d’Italia”, Carlo Emilio Gadda, riguardo a L’Aquila.
Perchè lo faccio? Bene, leggevo qualche giorno fa della vendita della storica sede del palazzo delle Poste, finalizzata, mi sembra d’aver capito, alla realizzazione di un hotel.
Chissà perchè poi ho pensato al palazzo su Viale Crispi già sede dell’Istituto tecnico femminile e poi dell’Isef, a via Maiella dove per decenni migliaia di giovani hanno frequentato lo Scientifico (c’ero anche io) e a centinaia di altre “cose”, dal Liceo Classico, a via Patini e via Marrelli, persino al cinema Rex.
Solo le strade hanno mantenuto lo stesso nome, mentre quel che vi si affacciava è stato “dirottato” (o esiliato) altrove, lontano.
Bando alle ciance ed ecco la “copia” di quello che scriveva Gadda. Con la sola certezza, purtroppo, che Lei sarà uno dei pochi a “capire” che il terremoto non aveva ordinato a nessuno di passare con gli elefanti dove si era salvato un pezzetto di prato e qualche fiore.
“Lasciatemi sostare nel mio sogno e nella mia devozione, se pure ùrgano il tempo e le cose. Lasciatemi qui dove la piazza chiara si apre, declive ai gradini, all’arco e alle torri del Duomo: piena di tende, di gabbie di polli: fruttifera e insigne di peperoni, di bretelle, di padelle, di pantofole, di paralumi e di piatti mal cotti, che il lucchese uno dopo l’altro li lancia nel cielo e poi come un giocoliere li riprende: «La mi dà nno una lirina soltanto e se lo pòrteno via!» E più celere ancora di quel gitto è la sua parlantina toscana sopra le donne torve, accigliate; che ne diffidano. Poi finiscono per cavare, dal bisunto, (1) venti centesimi al pezzo. Stamane esse circonderanno i lari della nuova terraglia, come d’una fornitura completa da tiro a segno: forse, da basso, arriverà il procaccia con una lettera, del figlio in Ascoli, o brigadiere a Tarvisio.
Uomini di fuori le mura, serve, attendenti con una sporta; e dolci colombi fra i piedi; mettono sovra i tendoni, a un tratto, il loro volo cinèreo: cavoli e pomidori consegnano all’aria le potenti vitamine dello spirito. Calze e giocattoli, pettini, sapone verde, (2) limoni: compatte maglie di lana, contro i gelidi ululati dell’inverno. La pòlis della montagna mi è cara: lasciatemi nel sole a mattino. Sotto l’alta direzione della guardia, al tocco, trenta spazzini in un battibaleno con getti d’acqua faranno pulita la piazza, mondà tala da ogni relitto de’ peperoni e de’ cavoli: sarò in delizie, al tocco, fra le ramazze! E dall’ampio lavacro emergeranno soli i due giovini di bronzo verde, sopra li stillanti bacili delle fontane. Forte grazia ne spira, come da due pùberi divinità . I loro piedi hanno la magrezza à lacre che si riscontra ne’ veri piedi de’ giovini ben conformati, adusati al ginnasio e ai diporti: le caviglie sono snelle, se ne rilèvano i tendini. Non hanno piedi gonfi o malvagi, tumefatti da precoce vizio del miocardio, o comunque, del circolo sanguigno. (3)
Scendendo alla fontana dalle 99 cannelle, mi scontrai nella gioventù garrula del vecchio ginnasio, che veniva di scuola, a frotte: le signorine, cariche di libri, avevano a lato i compagni: poi una gioconda piazza, San Biagio, dove abitava il sole, dov’eran carri e asinelli col basto: e cavalli in riposo, col muso nel sacco-avena, con la coda ai tafà ni.
Quella stazione di quadrupedi odorosi ed onesti mi colmò d’allegrezza: e d’un senso come di mansuetudine, di serietà calma e di vita. Era estremamente logico e razionale che lungo i sentieri de’ monti venissero con le sue mosche alla pòlis muli ed asini, scodinzolanti virtù. I tram elettrici, anche i più perfezionati, non avrebbero potuto gareggiare con loro. Questi altri asinelli, coi libri, transitavano pieni di giovinezza senza degnare d’uno sguardo i compagni: mute le femmine, i maschi facevano valutazione clamorosa di certi calci, che erano stati, sembra, i più indovinati calci della settimana. Biondi e neri capegli erano, con le impetuose voci, nel vento. I nomi degli eroi (4) correvano di bocca in bocca, per quanto non registrati dal vocabolario, che aveva l’aria di pesare un quintale.
Sentendomi asino stagionato me ne venivo solingo, e discesi alla fontana dalle cannelle: che l’arte e il buon senso di Tancredi di Pèntima, negli anni di Tagliacozzo, avevano combinata ai neo-cittadini. Il dispositivo è pensato con criterio: chiara, nei dettagli dell’opera adeguatissima al sito, tu leggi la finalità pratica di essa. Vi leggi una sollecitudine architettrice ch’è nobilmente urbana e sensatamente razionale. Ivi era la sorgiva del primo elemento, ai piedi del colle: e le mura la inclusero «in urbe», scendendo, scendendo, quasi col gesto di chi si china per raccogliere un utensile caduto. La fontana era il più necessario degli utensili civici. Da quell’aves, di certo, venne la scelta del luogo: e, forse, prima che da ogni ragione araldica, il nome della città : poiché la polla era nota nei secoli e le acquicce che ne discendevano al fiume eran dette, in latino, Aculae o Aquìliae….”
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