Se la vita è stata una nottata…
Amedeo Esposito – lui che non è mai stato un nottambulo incallito – ha esortato tutti a salvare L’Aquila della notte. Lo ha fatto, come leggerete, con garbo e intingendo la penna nella storia, perché lui storicizza tutto.
Ci sentiamo in diritto anche noi, però, di chiedere a chi comanda di non impedire con orari, gendarmi e porte sbarrate che L’Aquila sia una città notturna.
Lo è sempre stata, anche quando girava poca gente. Lo è diventata molto di più con la movida esplosa negli ultimi due decenni. Prima che fosse fermato tutto. Prima che la natura staccasse la spina nel 2009. Lo fu anche quando a fare le ore piccole erano pochi, anche a 7 gradi sotto zero con il ghiaccio alle colonne dei portici. I calendari segnavano 1970 o giù di lì.
La notte in una città antica ha sempre fisionomie suggestive. Richiama con l’oscurità e con le luci ciò che è stato. Pare di scorgere ombre esangui di fanciulle trapassate da secoli, dietro i vetri e le tende dei sontuosi palazzi nobiliari. Prima decaduti, oggi caduti proprio. Finiti in pezzi come tante vite, quelle di chi le notti le respirava, le assaporava, ma sempre fino a pochi minuti prima dell’alba. La luce del giorno scacciava tutti. Finiva l’incanto della notte. Mai di giorno, era un tacito sussurro, un impegno degli insonni spiriti delle tenebre.
No, non si tolga la notte a L’Aquila, sarebbe come tappare le fontanelle zampillanti dalle pietre levigate o dai mascheroni di bronzo. Niente più gorgheggio quieto e argentino dell’acqua fresca, salutare dopo troppo vino di tante notti, in cui tutto era troppo, ma non la notte stessa. No, non togliete la notte a L’Aquila. Le è stato tolto già tanto, quasi tutto. Le è stata strappata la scintilla della vita. Deve tornare, come le lucciole d’agosto o il profumo del tiglio.
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