Cultura e storia per la riedificazione morale


L’Aquila – DOPO IL TERREMOTO, RICOSTRUZIONE PER NOI COME UN DOPOGUERRA – Lo storico prof. Walter Cavalieri ha detto in occasione della celebrazione del 70° della Liberazione della città: “Questo 70° anniversario cade in un momento particolare della nostra storia civile, con una Città che dopo 5 anni è pienamente impegnata nella propria ricostruzione. Una ricostruzione – mi si perdoni il paragone irriverente – che rappresenta il nostro dopoguerra, visto che per le nostre generazioni il terremoto è stato la nostra guerra e la anche nostra Resistenza. In questo contesto di rinascita, la cultura e la storia possono svolgere un ruolo fondamentale nella ricostruzione morale della città, della sua coesione sociale, dell’identità da trasmettere ai nostri figli.

Compito arduo, poiché nel dna dell’Aquilano (la cosiddetta Aquilanitas) vi sono molte doti positive riconosciute da tutti (tenacia, fierezza, ironia, capacità di adattamento), ma anche un’innata tendenza al dileggio, alla rissosità interna e alla superficialità di giudizio. Sono questi nostri limiti, ad esempio, che per decenni hanno interpretato la vicenda dei Nove Martiri come “una ragazzata” o un’iniziativa goliardica finita male.

C’è voluto molto tempo e, vi assicuro, molto studio per ripristinare la verità. Anche se di “verità storica” non si dovrebbe mai parlare, è tuttavia sempre preferibile una interpretazione plausibile e documentata piuttosto che una realtà storica romanzata e fantasiosa. Oggi abbiamo finalmente capito che la sparatoria che avvenne il 23 settembre ’43 su Monte Castellano è stato uno dei primissimi scontri armati fra civili italiani e militari tedeschi: praticamente l’inizio della Resistenza italiana!

Ed è grazie a questo lavoro che oggi tutti gli Aquilani si accostano con deferenza e con riconoscenza al cippo posto il 25 aprile all’inizio del sentiero che porta a Madonna Fore e a Collebrincioni. Qualcosa di simile vale anche per la liberazione dell’Aquila, della quale ancora oggi ci si limita spesso a dire soltanto che “la città non fu liberata da nessuno”, che fu abbandonata spontaneamente dai tedeschi, come se nessuno li abbia spinti ad andare via. Anche in questo caso, è necessario ricostruire (sia pure per sommi capi) il contesto e restituire all’evento la sua giusta dimensione.

E’ vero, L’Aquila non è stata liberata con una battaglia campale o con un lungo assedio (come Firenze o Bologna), ma è anche vero che la ritirata tedesca verso Nord non fu affatto spontanea, ma dettata da ben precise ragioni militari. Basti dire che il 6 giugno si era aperto un secondo fronte in Europa con lo sbarco in Normandia e si preparava dunque la battaglia finale per la difesa della Germania. Inoltre sullo scacchiere italiano, a metà maggio, dopo quattro sanguinose battaglie era crollato il caposaldo di Cassino, si era aperta la strada verso Roma e – cosa ben più grave – i tedeschi presenti in Abruzzo rischiavano di essere accerchiati da una manovra di ricongiungimento con l’VIII Armata inglese che risaliva sul versante adriatico. Insomma, a metà ’44 quello tedesco era già un esercito sconfitto che non aveva altre alternative alla ritirata.

Ma c’è anche un altro elemento che consigliava ai tedeschi di affrettare il ripiegamento: la crescente insicurezza del retrofronte, reso sempre più infido dalle attività partigiane. E’ naturale, infatti, che uno sforzo prolungato sulla Linea Gustav poteva essere assicurato solo da una salda retrovia capace di ospitare in piena sicurezza tutta la logistica tedesca: officine, macellerie, panetterie, magazzini, ospedali militari, 50 depositi come il famoso “Munitionlager Manfred” di Lucoli.

Non è un caso che nei nove mesi di occupazione i tedeschi si preoccuparono principalmente di “tenere calma la piazza”, a cominciare dall’impiego di truppe austriache (quindi di religione cattolica) e di soldati anziani o mandati in licenza. Per gli stessi motivi i comandi tedeschi provvidero spesso a punire gli abusi commessi dalla loro soldataglia, tennero segreta l’avvenuta fucilazione dei Nove Martiri, provvidero alla fucilazione del milite fascista Tonino Ciroli, colpevole dell’omicidio dei coniugi Berardoni in via San Martino.

Nonostante questi accorgimenti, fin dall’inizio incombeva tuttavia nelle retrovie la minaccia di migliaia di ex-POW anglo-americani che, con grandissimo rischio personale, contadini, cittadini e religiosi nascosero, nutrirono e aiutarono a passare le linee. E poi la minaccia dell’attività partigiana, sempre sottovalutata : un’attività che era nata spontanea (soprattutto per spirito di autodifesa, come nel caso dei Nove Martiri o dei primi gappisti di città), ma che dal febbraio ’44, con l’arrivo di Giovanni Ricottilli, di Luigi Marrone e altri militari, diventò organizzata e particolarmente aggressiva.

Non per niente i tedeschi allestirono nel complesso di Collemaggio il terribile centro di detenzione e tortura noto come “la via Tasso aquilana”, e impiegarono anche sul nostro territorio reparti dedicati esclusivamente alla lotta anti-guerriglia ( come il battaglione “Brandenburg”). Faccio notare che a questo apparato repressivo mancò anche all’Aquila il sufficiente sostegno neofascista, grazie al rifiuto di ri-arruolarsi della stragrande maggioranza dei 600.000 soldati internati in Germania, che costituisce un tassello fondamentale della Resistenza, assieme a quello della lotta armata e della diffusa resistenza disarmata.

Dunque, pressata dagli eserciti alleati e minacciata alle spalle dagli uomini della Resistenza, la X Armata tedesca di Kesselring non aveva altra possibilità che il ripiegamento. Altro che “miracolo di Sant’Antonio”! La liberazione dell’Aquila va intesa unicamente come il frutto di una lotta senza quartiere al nazi-fascismo. Con la liberazione finivano nove lunghi mesi di occupazione che qui è impossibile rievocare analiticamente.

Voglio solo evocare dei flash: i passi delle ronde tedesche coi loro scarponi chiodati; il collare metallico della FeldGendarmerie, il comando della Silvestrella, l’obbligo dell’oscuramento, l’ascolto clandestino di radio Londra, il suono lacerante delle sirene dell’allarme aereo e l’incubo degli attacchi aerei alleati (culminati nel bombardamento dell’8 dicembre), i rastrellamenti alla ricerca di POW, ebrei, partigiani e renitenti, i civili investiti dai camion tedeschi lungo le strade, il mercato nero. Basterebbe leggere i tanti memoriali di chi ha vissuto quei tempi, come i recenti ricordi personali resi pubblici da Emanuela Medoro.

Su tutto dominavano il diffuso senso di paura mascherato sotto una parvenza di normalità, e la percezione dell’incertezza (si sa sempre, infatti, come e quando una guerra inizia, mai quando e come finisce…). Col forzoso ripiegamento tedesco, gli Aquilani vedevano dunque partire le prudenti truppe stanziali di occupazione e vedevano transitare reparti incattiviti dalla sconfitta e nugoli di pericolosissimi guastatori. In questo scenario maturarono i sanguinosi colpi di coda di Onna e di Filetto, ma anche Capistrello.

Finalmente il 13 giugno L’Aquila si liberava da tutto questo: dalla guerra, dalla paura, dalla fame. E accoglieva i primi reparti del C.I.L. e le maggiori bande partigiane che dagli inizi di giugno si erano portate sulle alture a ridosso della città: la “Di Vincenzo”, la “Duchessa”, la banda di D’Ascenzo (Arischia). Iniziava così, pur nell’ambito di una seconda occupazione, il lento apprendistato democratico, animato da uomini come Pietro Ventura, Emidio Lopardi, Carlo Chiarizia, Stanislao Pietrostefani.

Tuttavia non mancheranno patrioti aquilani che sceglieranno volontariamente di continuare la guerra coi reparti del C.I.L. o con la brigata Maiella, pagando spesso con la vita questo slancio patriottico (Mario Tradardi, Giorgio Agnetti, Tonino Rauco). Uomini che si ricollegavano idealmente al sacrificio prematuro dei Nove Martiri, i cui resti saranno rinvenuti il 14 giugno.

Credo che questa commemorazione sia una occasione (come già per i Nove Martiri) per capire e per compiere un atto di giustizia verso tutte quelle donne e quegli uomini che per nove mesi hanno retto il peso dell’occupazione e ne hanno affrettato la conclusione. In questo senso, gli storici hanno fatto la loro parte: la mia esortazione è che facciano la loro parte anche la scuola, il mondo della cultura e dell’informazione, e la politica. Perché la conoscenza e il ricordo del passato sono elementi essenziali per plasmare la società che tutti dovrebbero desiderare: una società attenta e consapevole.

*storico


14 Giugno 2014

Categoria : Storia & Cultura
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