Abruzzo e Puglia illuminano Milano


(di Francesco Lenoci – Docente Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano) – Milano – Ho avuto la fortuna di conoscere Goffredo Palmerini tre anni fa, il 28 giugno 2011, all’Aquila. Riesco ad essere così preciso, perché Goffredo ha menzionato il mio intervento di quella sera in un suo pezzo, poi collocato in “L’Altra Italia”, il secondo libro della sua trilogia con One Group Edizioni. Senza quel preciso riferimento, a chi di voi mi avesse chiesto da quanto tempo conosci Goffredo avrei risposto, senza alcuna esitazione . . . “Ci conosciamo da sempre”. Non credo di sbagliare affermando che anche Goffredo avrebbe dato la stessa risposta . . . “Ci conosciamo da sempre” con riguardo al suo amico Francesco. Non ho citato invano il 28 giugno 2011: se io e Goffredo ci siamo ritrovati a Milano questa sera, 6 giugno 2014, se voi vi trovate qui questa sera, presso la meravigliosa Sala Auditorium del Credito Valtellinese, è perché quel 28 giugno 2011 avevo preso un impegno e, sia pure con qualche variazione rispetto all’originario intento, riesco finalmente ad onorarlo.

Devo citare l’incipit del mio intervento di tre anni fa, all’Aquila, presso la Sala Conferenze Tre Marie. “Da Milano, il 28 giugno 2011, alle 6,07, ho inviato un sms a Dino Abbascià, presidente dell’Associazione Regionale Pugliesi di Milano. Gli ho chiesto di poter riproporre gli eventi di quel giorno (presentazione del Libro “Quel Ramo di Mandorlo – il leggendario ristorante aquilano Tre Marie e inaugurazione della Mostra d’Arte), dopo L’Aquila, a Milano. Mi ha risposto con un altro sms alle 6,20. “Sei autorizzato e pregato di riproporli a Milano. Porgi i saluti a tutti i presenti all’Aquila: ogni italiano ha un pezzo di cuore in quel territorio”.

LA CURA DELLE GLORIE AQUILANE
Quel Ramo di Mandorlo io l’ho visto. . . il 18 marzo 2009. Se ne stava freddo e morto, come il resto del Ristorante Tre Marie. Mi venne in mente la frase di Robert De Niro in “C’era una volta in America”, quando portò la ragazza di cui era perdutamente innamorato in un ristorante stranamente deserto: “Avevi detto che ti sarebbe piaciuto un ristorante al mare. Fuori stagione sono chiusi. E io l’ho fatto aprire”.

Nel 2009, il Ristorante Tre Marie era “fuori stagione” già da qualche anno. Oggi (6 giugno 2014) il Ristorante Tre Marie, un tempio della cultura culinaria, artistica e letteraria, è ancora chiuso, è ancora “fuori stagione”. È un errore blu . . . non mi stanco di ripeterlo dal 18 marzo 2009 . . . è un errore blu! L’Aquila non può permettersi di trascurare le sue glorie. L’Aquila deve curare le sue glorie come un vaso di fiori alla finestra. La cura delle glorie è un grande, inestimabile valore, che va trasmesso ai bambini, ai giovani.

“Tradizione”, diceva Gustav Mahler, “non è culto delle ceneri, ma custodia del fuoco”. Tradizione è custodia del fuoco . . . come sapeva benissimo don Peppe Scipioni. Sapete qual era il principio etico e professionale che don Peppe Scipioni applicava nel Ristorante Tre Marie?…“Semplicità”. “Semplicità vuol dire pure rifuggire dall’innovazione fine a se stessa e sapersi attenere alla tradizione, pur senza rinunciare a interpretare con garbo ogni ragionevole esigenza di attualizzazione”. (Cfr. Errico Centofanti, “Quel Ramo di Mandorlo”, One Group Edizioni, 2011, pag. 131).

Tenetevi forte. Sapete qual è il dono che Papa Francesco ha chiesto a San Francesco il 4 ottobre 2013, raccogliendosi in preghiera sulla sua tomba ad Assisi? L’ha rivelato ad una donna di una parrocchia romana. “Ho chiesto”, le ha detto Papa Francesco, “per me e per tutta la Chiesa il dono della Semplicità”.

Tenetevi ancora più forte. Goffredo Palmerini a chi ha dedicato il terzo libro della sua trilogia “L’Italia dei sogni”?. . . a Chiara e Francesco.

“L’Italia dei sogni”. . . vi ho svelato la dedica. Permettetemi di parlare della copertina. È di colore azzurro, con dei puntini neri in basso che nella parte alta si trasformano in stelle, che circondano il tricolore. Il tricolore è collegato ad un trolley tramite una maniglia, che mi piace definire “di servizio”, eccezionalmente lunga, che funge da scala. La scala, collegata al trolley e al tricolore, unisce la terra al cielo, realizzando il sogno.

IL SOGNO DI DON TONINO BELLO
Non so perché, ma fin dal primo momento che ho visto la copertina, l’ho associata a tre meravigliosi pensieri di don Tonino Bello.

Il primo pensiero concerne il trolley e la vita. Osserva don Tonino Bello “La vita non è come una valigia: una valigia quanto più è piena . . . tanto più è pesante; la vita quanto più è vuota . . . tanto più è pesante.

Il secondo pensiero riguarda la scala e i giovani. Se don Tonino Bello fosse qui, pensando che il tasso di disoccupazione nel primo trimestre 2014 ha toccato il nuovo record del 13,6% e, addirittura, del 46% per i giovani da 15 a 24 anni (scomponibile in 35,9% Nord, 42,9% Centro, 60,9% Sud), direbbe: “Ragazzi, non lasciatevi suggestionare dal mito di dover camminare con i piedi per terra, perché quello è un mito che viene adoperato moltissimo, strumentalmente dal mondo degli adulti. A furia di camminare con i piedi per terra, ci stiamo appiattendo alla banalità più assurda. Io credo che siete voi, invece, che dovete impregnare di luce, di sogno, di entusiasmo, di passione la vita così arida, così secca degli adulti”.

Il terzo pensiero si riferisce ai giovani e ai loro avi. Chiarisce don Tonino Bello: “La Terra non ci è stata data in eredità dai nostri genitori, ma l’abbiamo ricevuta in prestito dai nostri figli”. “L’Italia dei sogni”. . . Sapete qual è il sogno di don Tonino Bello? . . . “Il mio sogno è portare il sorriso, il coraggio, la speranza a tutti coloro che incontro”. Mi piace sottolineare che al primo posto poneva il sorriso.

Perché vi ho parlato di don Tonino Bello? Perché Goffredo Palmerini ha scritto dei pezzi ricollocati ne “L’Italia dei sogni” su Santi e prossimi Santi: San Celestino V, San Giovanni Paolo II, il Venerabile don Gaetano Tantalo, il Servo di Dio don Tonino Bello. Quello su don Tonino Bello, colgo l’occasione per ringraziare pubblicamente Goffredo Palmerini, è un pezzo su un mio libro, tanto piccolo quanto prezioso: “Spalancare la finestra del futuro”, ED INSIEME, 2011. È collocato a pag. 46 de “L’Italia dei sogni”.

DUE SOGNI CHE SI UNISCONO
“L’Italia dei sogni” contiene a pag. 194 un pezzo scritto a quattro mani da me e Goffredo Palmerini. Concerne Milano, Martina Franca e L’Aquila. Cosa le collega? Un sogno chiamato “Teatro”.

A Milano, nel 1947, due ragazzi di 26 e 28 anni, Giorgio Strehler e Paolo Grassi, inventarono un sogno: il Piccolo Teatro di Milano. Al loro fianco c’era una ragazza: Nina Vinchi. Strehler, Grassi, Vinchi, un sodalizio a tre che ha fatto la storia del teatro, a Milano, in Italia, nel mondo, che ha saputo fare della sala di via Rovello uno dei maggiori centri culturali europei.

A Martina Franca, nel 1975, un gruppo di appassionati musicofili, capeggiati da Alessandro Caroli, con il determinante supporto di Franco Punzi, allora Sindaco della città pugliese e di Paolo Grassi, all’epoca sovrintendente del Teatro alla Scala, inventarono un altro sogno: il Festival della Valle d’Itria.

È proprio vero (e non mi stancherò mai di ripeterlo): “Se non si sogna, non si progetta. E se non si progetta, non si realizza”. È incredibile a dirsi ma, ogni anno, nel ricordo di Paolo Grassi, i due citati sogni annullano i 1.000 km che li separano e si uniscono. Ciò avviene ogni anno, senza soluzione di continuità, al punto che Sergio Escobar è solito dire: “Il Festival della Valle d’Itria è una costola del Piccolo Teatro di Milano. E il Piccolo Teatro di Milano è una costola del Festival della Valle d’Itria”. È un pensiero che arriva dritto al mio cuore, facendomi emozionare.

Così come mi fa emozionare la strategia del Festival. “Tempi di crisi e di paure diffuse, di necessaria prudenza e di rinunce forzose, ma per un Festival che sente l’alto richiamo del servizio pubblico alla Cultura arretrare e chiudersi in difesa è una soluzione semplicemente non percorribile. Il Festival della Valle d’Itria accetta la sfida, nella convinzione che l’unica risposta possibile, per una società smarrita, sia stringersi intorno ai propri valori. E quindi rilancia, scommettendo sulla curiosità e qualità del suo pubblico, trovando coraggio nelle proprie radici e cercando di trasformarsi con sempre maggior convinzione in un laboratorio pubblico di idee, creatività, emozioni, dibattito”.

Ciò, nonostante lo straordinario monito di Paolo Grassi, ricordato da Alberto Triola, Direttore artistico del Festival della Valle d’Itria il 21 maggio 2014 presso il Piccolo Teatro di Milano: “Un’idea di fare teatro, in un modo diverso dagli altri, non vi servirà molto. Anzi, vi farà soffrire di più. Ma sarà anche il segno del vostro orgoglio. Portate con voi l’esempio di una moralità teatrale per un mondo migliore e più buono. Non dimenticatevi: in epoche oscure anche le luci più tenui brillano come stelle. E ricordatevi anche che, nonostante tutto, il Mondo non finisce qui. Che il Teatro non finisce qui”.

Martina Franca, la Città che porta i protagonisti e il pubblico del Festival della Valle d’Itria, grazie a programmi di musica vocale spirituale, mottetti e madrigali, a scoprire le sue chiese, i suoi chiostri e dintorni in fasce orarie inedite: il mezzogiorno domenicale (All’ora sesta), tutti i sabati alle ore 18,00 (I concerti del sorbetto) e nella suggestiva atmosfera notturna (Canta la notte ha inizio a mezzanotte). Sia lode e gloria al Festival della Valle d’Itria, un sogno pugliese-milanese che da 40 anni inorgoglisce ed emoziona nel nome della Cultura.

UN MESSAGGIO DI PACE
Qual è il legame tra il Festival della Valle d’Itria e L’Aquila?. . . È l’opera Nûr (“Luce” in lingua araba). È un’opera da camera in un atto dell’aquilano Marco Taralli. Nûr è un’opera appositamente commissionata dal Festival della Valle d’Itria, che è stata eseguita per la prima volta il 21 luglio 2012 presso il Teatro Verdi di Martina Franca. La replica ha avuto luogo il 28 luglio, trasmessa in diretta da Radio3 Rai.

Nûr si svolge in una notte, tra i letti di un improvvisato ospedale da campo allestito nel prato di Collemaggio, l’indomani del terribile terremoto che ha distrutto la città dell’Aquila. Narra la storia di una donna senza nome, che ha perso la vista nel crollo della sua casa e che trascorre una notte di delirio, tormenti e visioni. I compagni di corsia, disturbati dal suo continuo lamentarsi per il buio che la circonda, la chiamano Luce. Si prendono cura di lei un vecchio Frate (Celestino V), che nessuno tranne Luce può vedere e Samih, un giovane Medico arabo contrastato dalla concretezza spiccia del Primario, che nell’emergenza del momento rimuove lo spazio della compassione umana. Questa drammatica vicenda notturna approda a una scoperta salvifica per la coscienza della donna allo spuntare dell’alba.

Nûr trasmette un messaggio di fondamentale importanza. Se è vero che parla di angoscia e sofferenza, è anche vero che rappresenta un cammino alla ricerca della luce: la luce della compassione e dell’accoglimento di chi è diverso da noi o, più semplicemente, lontano, altro da noi. È un messaggio di Pace, che ha riempito di gioia la mente, il cuore e l’anima di chi ha visto l’opera. Tutti, ripeto tutti, ci siamo commossi quando Luce e Samih hanno visto aprirsi la Porta Santa della Basilica di Collemaggio e l’hanno oltrepassata. Sia lode e gloria a Nûr, una meravigliosa Opera che ha portato tanta luce aquilana al Festival della Valle d’Itria.


12 Giugno 2014

Categoria : Cultura
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