Vorremmo
Per il sesto anniversario, ci è sembrato giusto fare una sola cosa. Camminare un’oretta nel centro storico dell’Aquila, di notte, rivedere angoli e luoghi di una vita inesorabilmente sbianchettata. Da soli. Niente fiaccole, niente parole, niente commemorazioni e soprattutto basta con quella frase: “L’Aquila torna o tornerà a volare”.
E’ tempo di finirla anche con la retorica insulsa e consunta delle parole sprecate, che manifestano pensieri bisunti. In cinque anni, quel che è fatto, è fatto, e si vede: è poco. Ma meglio di niente. Tutto là .
Per cinque anni sono mancate idee pragmatiche, iniziative vicine al reale. Troppi sogni, troppe ripetizioni lise e vacue. Non ci sono leggi e meccanismi sufficienti a garantire davvero una rinascita in tempi accettabili. Questo è quanto. La Regione non ha prodotto strumenti adeguati, lo Stato ha farfugliato, sprecato soldi, perso tempo, addirittura ostacolato. Abbiamo un inizio di ricostruzione, che avremmo dovuto avere da molto, molto tempo. Tutto qua. Mettiamoci l’animo in pace, è così e molti, non più verdi, L’Aquila non la rivedranno mai più. Non faranno in tempo. Ecco perché abbiamo scelto di rivederla in silenzio e da soli. Così com’è, diruta e profondamente abbattuta. Smozziacata, sbocconcellata.
Vorremmo vedere luci alle finestre, che non ci sono. Strade con auto parcheggiate, panni stesi, passanti, locali con gente a bere e chiacchierare, ma in centro, come una volta. Negozi. Pennacchi di fumo dai camini. Giardinetti con l’erbetta ben rasata. Fiori. Gatti seduti ad aspettare la scatoletta. Disordine, magari sporcizia urbana e lampioni spenti, oppure chiarori saltellanti di televisori accesi in cucina, dentro case abitate a seguire scempiaggini in prima serata. Vorremmo sentire risate, pianti di bambini, grida di perdonabili litigi familiari, sbadigli, starnuti, canzonette sotto la doccia. Vorremmo una città senza i 309 morti e tutti quelli che sono seguiti per malattia, solitudine, ipocondria, povertà , disperazione da lavoro perso o mai avuto. Tedium vitae ciceroniano.
Vorremmo tornare ad incontrare quelli, dei 309, che conoscevamo. Per due chiacchiere sul nulla, banali, consuete. Vorremmo 309 tombe di meno, e migliaia di speranze di più. Vorremmo che quei 20 secondi di distruzione non ci fossero mai stati. Vorremmo capire perché, ancora oggi, tutto sembra impossibile e viene da dire: ma no, abbiamo sognato tutto, non è accaduto. L’Aquila è lì con i suoi difetti, i suoi problemi, le sue meschinerie provinciali, la sua quotidianità , i suoi rari colpi d’ala. La sua essenza di comunità come tante altre, con la differenza che era la “tua” comunità e dunque la sentivi nel sangue.
Oggi la ferita più dolente è, sempre, la perdita non colmabile di quella ordinarietà finita in frantumi, polvere, ricordi destrutturati. Non ripristinabili. Non restaurabili. Non riedificabili. Non antisismici. Questo, e solo questo, è il sesto anniversario, che è soltanto quello che sta tra il quinto e il settimo, e gli altri che verranno. Fiaccole? Le accenda pure chi le vuole. Se servono a qualcosa o a qualcuno, ben arrivate. C’è chi le vedrà tremolare attraverso le lacrime e abitare il silenzio di una notte che, prima dell’alba, torna buia come ogni altra.
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