Federico Caffè, assenza di un maestro
(di Paolo Di Vincenzo)
Il 6 gennaio 1914 nasceva a Castellamare Adriatico (all’epoca non ancora accorpata a Pescara), Federico Caffè. Ma nella sua Pescara, con cui aveva mantenuto un rapporto stretto anche perché ci abitava l’amatissima sorella Maria Annina, lo ricordano solo gli amici e i parenti. Di certo non le istituzioni.
Fu uno stimatissimo economista, maestro di personaggi oggi nei punti chiave dell’economia mondiale come Mario Draghi (governatore della Banca centrale europea), Ignazio Visco (governatore della Banca d’Italia), e di Franco Archibugi, Giorgio Ruffolo, Luigi Spaventa, Marcello De Cecco, Fernando Vianello, Ezio Tarantelli (assassinato dalle Brigate rosse nel 1985), Nicola Acocella, Fausto Vicarelli, Bruno Amoroso, Guido Rey, Pierluigi Ciocca, Vieri Ceriani, Marco Ruffolo, Enrico Giovannini, Daniele Archibugi, Nino Galloni.
Il celebre studioso, ammirato e stimato da Meuccio Ruini, Paolo Baffi e Carlo Azeglio Ciampi, era un uomo minuto, piccolino, un metro e cinquanta di altezza, magrissimo, schivo, timido, che fino alla fine girava per Roma usando i mezzi pubblici. Pochi giorni dopo l’assassinio da parte delle Br del suo allievo prediletto, Ezio Tarantelli, arrivò a casa sua una telefonata minacciosissima, rispose il fratello, Alfonso, “Dica al professore”, sentenziò l’anonimo interlocutore, “che è arrivato il suo turno. Dopo Tarantelli ora tocca a lui”.
La polizia volle metterlo sotto scorta ma il professore, così lo chiamavano tutti, si schermì: “Io mi muovo in autobus, e non intendo assolutamente rinunciare ai mezzi pubblici. Grazie no. Niente scorta”.
E così come aveva vissuto, quasi in disparte nonostante l’apprezzamento del mondo accademico non solo italiano, se ne andò. La sera tra il 14 e il 15 aprile 1987 lascia la sua casa di Roma, sulla collina di Monte Mario, via Cadlolo, e senza far rumore (con lui viveva il fratello Alfonso, professore di lettere nelle scuole superiori) va via. In punta di piedi, si potrebbe immaginare. Sul tavolino vicino al letto lascia l’orologio, gli occhiali, le chiavi di casa e dell’università (pur in pensione aveva mantenuto uno studio lì), il passaporto e il libretto degli assegni.
Qualcuno ha voluto vedere in questi oggetti una serie di simboli: non ha bisogno di orologi chi ha deciso di lasciare questo mondo, come pure di occhiali e di soldi. Tantomeno di passaporto o di chiavi.
Tanti hanno sperato di vedere in questa scelta un gesto alla Majorana, il fisico nucleare che, pentito delle ricerche utilizzabili per la costruzione della bomba atomica, pare si sia ritirato in un convento in Calabria, Serra San Bruno. Lo stesso in cui avrebbe trovato pace anche uno dei piloti del B29, l’aereo americano che sganciò la prima bomba atomica su Hiroshima.
Ma di Federico Caffè, Vinicio come lo chiamavano amici e parenti a Pescara, non si è saputo più nulla. Il 30 ottobre 1998 ne è stata dichiarata la morte presunta.
Nel 1997, a dieci anni dalla scomparsa, il quotidiano la Repubblica pubblicò una lettera indirizzata a Carlo Ruini (figlio di Meuccio, amico e collega di Caffè), in cui si parla di suicidio. Questo il passo più significativo: “A me è accaduta la cosa più ingiusta e impensata: una subdola depressione mi ha privato della facoltà di un qualsiasi ragionamento, le abituali amnesie del periodo senile sono diventate totali. (…) Non vorrei finire la mia vita con lo squallore di un suicidio. Ma vie d’uscita non ne vedo”.
La sorella Maria Annina, intervistata da chi scrive in quell’occasione, a proposito del possibile suicidio disse: “Non che lo escludo ma lui era così convinto della dignità umana che non credo possa aver fatto un gesto del genere. Lui non era aggressivo con gli altri e nemmeno con se stesso. Il suicidio richiede una violenza terribile e non credo ne sarebbe stato capace”.
“Quello che mi rammarica un po’”, continuava Maria Annina Caffè nell’intervista pubblicata sul Centro l’8 aprile 1997, “è che di Federico si parli solo per la sua fine. Soprattutto Pescara, la sua città, per cui aveva fatto tanto nel periodo della ricostruzione (Caffè fu capo di gabinetto del ministero per la Ricostruzione di Meuccio Ruini) e che lui aveva tanto nel cuore. Pescara oggi lo ha dimenticato. Ma cosa insegniamo ai nostri giovani? Solo il mito dei soldi? Perché non ricordiamo questa figura?”.
Già, perché non ricordiamo personaggi come Federico Caffe?
LA SCHEDA
Federico Caffè, nacque a Pescara (all’epoca nel territorio di Castellamare Adriatico poi accorpato a Pescara) il 6 gennaio 1914, si laureò con lode in Scienze economiche e commerciali all’università di Roma nel 1936.
Assistente volontario alla cattedra di Politica economica e finanziaria, dal 1939. nell’anno accademico 1946/47 vinse una borsa di studio per un soggiorno alla London school of Economics. Vincitore nel 1954 del primo concorso a cattedra di Politica economica e finanziaria tenutosi dopo la fine della guerra è stato professore straordinario della stessa disciplina a Messina passando poi all’insegnamento di Economia politica a Bologna, infine è stato chiamato a Roma, nel 1959, come professore ordinario di Politica economica e finanziaria, nella facoltà di Economia e commercio.
Dal 1970 è stato socio corrispondente dell’Accademia nazionale dei Lincei ed è divenuto socio nazionale nel 1986.
Alla sua lunga e intensa carriera universitaria si è affiancata una altrettanto lunga e prestigiosa carriera pubblica che lo vide per un breve periodo capo di gabinetto del ministro della Ricostruzione Meuccio Ruini, nel governo Parri. Non meno rilevanti sono stati gli incarichi che gli vennero affidati come funzionario del servizio studi della Banca d’Italia dove venne assunto nel 1937. Nel 1954, con la sua nomina a professore straordinario, si concluse il rapporto di lavoro e venne nominato consulente del Governatore della Banca d’Italia, incarico che mantenne fino al 1969.
E’ scomparso nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1987. Il 30 ottobre 1998 è stata dichiarata la sua morte presunta.
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