Due scomode commemorazioni
“L’uomo superiore che vuole arrivare a un certo punto cerca di portarvi anche gli altri. Poiché vuol capire, cerca di far sì che anche gli altri capiscano. Questa è la forza della superiorità: trovare l’esempio in se stessa”
(Confucio)
L’Aquila – (di Carlo Di Stanislao) -Confesso d’aver trasecolato, all’unisono con il conduttore, il solitamente flemmatico Corrado Augias, mentre, dal piccolo schermo targato RAI3, Miriam Maffai sosteneva, convintamene, di rimpiangere, rispetto a quelli venuti dopo, i governi targati Fanfani, populisti quanto si vuole, ma impegnati a dare risorse e speranza ad una intera nazione. Ho trasecolato è vero e sono rimasto perplesso per qualche tempo ma poi, nei giorni successivi, ho dovuto dare ragione alla sempre diretta, intelligente e, spesso, politicamente scorretta Maffai (si veda il commento ad altre sue scomode dichiarazione uscite sul Foglio del 19 aprile dell’anno scorso). Ha ragione lei ed anche se non vogliamo riconoscerlo il Fanfani III, che è stato in carica dal 26 luglio 1960 al 21 febbraio 1962 per un totale di 575 giorni, ha prodotto più rinnovamenti e benefici di tanti altri governi di destra e di sinistra, perché fu incentrato sulla concertazione, le scelte condivise, la tutela sociale, il rilancio economico e la serietà degli amministratori e seppe raccogliere i bisogni della gente, sintetizzarli politicamente e portali a Montecitorio, per trovare adeguate e rapide risposte. In quel tempo il Parlamento non era una tribuna di propaganda, ma un luogo di elaborazione politica e legislativa e quella stagione, ormai lontana, è davvero da rimpiangere. Così sull’onda delle riflessioni in me prodotta dalla “uscita scorretta” della Maffai, mi è venuto fatto di pensare che il meglio di sé (se possiamo così chiamarlo), quelli della mia generazione, lo debbono a uomini e nomi ormai impronunciabile, assolutamente messi in ombra e da dimenticare, come fosse vergognoso anche solo citarli. Quindi, come necessità di dar voce ad un angolo tacitato della mia coscienza e, credo, della coscienza di molti altri che sono ai tre quarti della loro vita, ho voluto dare forma al ricordo di due grandi pensatori, politici che appartengono alla mia formazione progressista e che, credo, siano stati ingiustamente relegati nel limbo dell’ ottusa amnesia collettiva. L’altra occasione (o cofattore marginale), me la offee la ricorrenza , in questi giorni, della loro morte, in date diverse, ma in questi mesti giorni di novembre. Il primo personaggio, descritto nell’aspetto nei modi come un abate settecentesco, alto e allampanato, grande bibliofilo e colonna dell’Editore Einuadi, è Franco Antonicelli, morto il 6 nombre del 1974 ,a 72 anni, senatore della Repubblica e pioniere della nostra televisione, ma soprattutto antifascista più volte arrestato e messo al confino; saggista e poeta con in cuore Croce e Godetti. Di lui Norberto Bobbio, vera coscienza critica e morale del nostro Paese, ha detto che aveva “il coraggio delle parole” e non a caso, è stato scelto questo titolo per il convegno che si è svolto il 6 novembre scorso (trasmesso solo da Radio Radicale), presso l’ auditorium della Camera di commercio a Livorno, citta’ alla quale il senatore della sinistra indipendente, scomparso venticinque anni fa, si era molto legato nell’ ultimo periodo della sua vita. Traduttore di Racine, straordinario lettore del Novecento letterario europeo, esperto dei poeti della “nuova Italia”, per usare un’ espressione cara al suo amico Croce, da D’ Annunzio a Pascoli e, in particolare, estimatore di Gozzano, Antonicelli è figura di intellettuale prestato alla politica, non come calcolo, ma come vocazione sincera a rispondere ai bisogni propri dell’uomo, in una visione tanto più insolita e singolare, se calata nella storia politica italiana che ha fatto del liberalismo una tradizione conservatrice o al più moderata, che invece lui, grazie agli influssi di Gramsci e Salvemini, si fece decisamente più aperta, disponibile e progressista. A guardare dentro ai suoi scritti (poetici e saggistici), si può vedere, chiaramente come Antonicelli (dimenticato e accantonato dalla cultura sia di destra che di sinistra), esprima la coscienza di chi ha intuito il futuro antidemocratico che il potere, dal fascismo in poi, avrebbe assunto, creando, in vario modo, una “modernizzazione reazionaria”: una micidiale miscela di populismo, antiparlamentarismo e tradizionalismo retrivo, che spiega molto della nostra storia attuale e recente. L’altro personaggio che, marginalmente, si commemora, a trenta anni dalla morte avvenuta nella sua Ravenna il 5 novembre, cinque giorni prima la celebre “caduta del muro”, è Benigno Zaccagnini, “l’onesto Zac”, come è stato definito, con un aggettivo che, nelle intenzioni reali, ne voleva rappresentare anche un limite. Segretario della DC nel periodo buio del grigiore di un partito ripiegato su se stesso, del calo di consenso, della sconfitta al referendum sul divorzio e della oscura, tragica vicenda Moro, Zaccagnini ripeteva con convinzione, di “essere in politica non per fede, ma a causa della fede”. Pacato sì, ma determinato e sensibile, grande conoscitore di Tommaso Moro (prese questo nome durante la sua guerra partigiana), convinto che lo scopo dell’amministrazione della polis sia quello di trasformare la societas in comunitas, magari plurali, ma con obbiettivi e ideali comuni. Durante il rapimento di Aldo Moro, eseguito dalle Brigate Rosse, Zaccagnini difese la “linea della fermezza”, ma la tragica morte dell’amico e collega lo distrusse umanamente e politicamente: nel 1980 venne sostituito nella carica di segretario nazionale da Flaminio Piccoli e, da quel momento in poi, non accettò alcun incarico istituzionale. Era un uomo mite e rivoluzionario, che permise ad una DC allo sfascio di durare ancora come partito populista e riformista ed era un uomo onesto (raro attributo in politica), che col suo fare pratico e attento, ispirato a Arrigo Boldrini ed al il mitico Bulow, seppe far comprendere che ancora vi era speranza per una via non-marxiana di autentico governo sociale. Ed era un uomo sensibile, ma fermo, che pagò la morte di Moro e la sua “fermezza necessaria”, con una sofferenza atroce, durata per l’intera vita. Nel suo discorso alla Camera in occasione del seminario per il 20° anniversario dalla scomparsa, Dario Franceschini ha ricordato che solo grazie a lui “la Democrazia Cristiana fu in grado di reggere l’impatto drammatico di quei giorni senza essere spazzata via dagli eventi, perché era tornata ad essere credibile e popolare nel paese con la sua segreteria e per la sua credibilità personale. Non sarebbe stato così, la Dc non avrebbe avuto la sua forza, se nel luglio del 1975, meno di tre anni prima del rapimento di Moro, il partito non avesse cambiato sostanza e immagine grazie alla sua elezione, ricostruendo il suo rapporto con la società e i ceti popolari.”. Vale la pena ricordare le profetiche parole che, nel 1963, l’onesto Zac pronunciò alla Camera, rivolte a Taglietti :” Vi è una barriera che per noi tutte le simboleggia: il muro di Berlino, un muro che per la prima volta nella storia serve non per impedire che altri dall’esterno penetri, ma per impedire che chi soffre dentro la città di Berlino est possa uscire ed evaderne. Noi sappiamo che anche questo muro verrà abbattuto; e non verrà abbattuto dai carri armati, ma dal cammino travolgente delle idee di libertà, di giustizia e di pace che ovunque avanzano nel mondo”. Mentre si prepara la trionfale commemorazione mediatica del ventennale della caduta del muro (prevista su radio e tv il 9 prossimo, officiante il mai stanco né sazio Bruno Vespa), forse, di là dalle fanfare, occorrerebbe riflettere sul senso autentico di queste parole e sull’autenticità di due esempi eterodossi, dignitosi e, forse per questo, dimenticati.
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