Paura e cambiamento


(Di Carlo Di Stanislao) – “La paura governa il genere umano. Il suo è il più vasto dei domini. Ti fa sbiancare come una candela. Ti spacca gli occhi in due. Non c’è nulla nel creato più abbondante della paura”
Saul Bellow

Spariti gli animali feroci, sgombrati i terrori del cielo, al confronto piacevoli distrazioni, quale fonte unica di paura non resta che l’uomo”
Guido Ceronetti

Carrère inizia a sconfinare nel reale quando legge la storia del falso medico Romand che per diciotto anni mente alla sua famiglia, fingendo di andare ogni mattina al lavoro e che nel 1993, temendo di essere scoperto, stermina moglie, figli e genitori. Lo scrittore manda una lettera in carcere per chiedere un’ intervista. Il suo modello è A sangue freddo di Truman Capote. Aspetta per mesi un riscontro dell’ ergastolano. Non ottiene risposta. Nel frattempo scrive “La settimana bianca”. Io leggo il libro nel 1992, nella edizione Enaudi ormai introvabile e scopro che Carrère è come Kafka, una scrittore distruttivo che sta dalla parte della oscurità. Leggo quel libro scritto in modo semplice, asciutto, fastidioso, una storia esile che si snoda con leggerezza e garbo, con un ragazino accompagnato dal padre troppo premuroso alla “settimana bianca”, con i compagni di scuola, chi troppo vivace e chi un poco bugiardo, con il “capo” indiscusso che domina i più timidi, grosso e spaccone i giochi rumorosi, le guance pizzicate dal freddo. Le insegnanti, il maestro di sci allegro e gentile, un piccolo paese di montagna con la sua piazza e il suo bar dai vetri brinati dal gelo. E tutto intorno l’immensità senza orizzonte della neve. Una storia che parte in sordina; ma già dalle prime pagine uno spiffero sottile di angoscia trasuda dai legni dello chalet, quella sacca dimenticata in un momento di fretta diventa, capitolo dopo capitolo, il sasso gettato nell’acqua intorno a cui si allargano cerchi sempre sempre più grandi di un’ansia cieca e impalpabile. Si trasforma quella sacca, dove fra il pigiama e la giacca a vento è rimasta una cassaforte di bambino piena di buonipremio, in un corpo “monstre” che incombe sui rituali di sci e studio, merende e gioco che scandiscono la giornata di una “classe de neige”. Fino a esplorare nella paura incontrollata di Nicolas.
E inesorabilmente il dramma, il più atroce, arriva tra lo sbattere delle porte di un bar, un agente dalle mani gonfie di freddo e lo sguardo malevolo di qualche paesano rinserrato nel giaccone. Come in un lampo Nicolas, il bambino, è divenuto adulto, un uomo fatto minato dalla eco prolungata di quell’incubo entrato a passo felpato nello chalet insieme al bambino ansioso di raggiungere i compagni di classe. Mi travolse quella lettura, facendomi capire che la mia infansia, apparentemenrte serana, era stata dominata dalla paura e che la paura, da allora, sempre ha dominato la mia vita. Paura di chi urla ed è sicuro di sé, di chi si dichiara forte e come tale capo, paura di essere inadeguati e quindi di sbagliare. Non c’è più stato verso di riprendersi.
Da quel romanzo e da quello agognato, con l’egastolano falso medico, uscito nel 2000, sono stati tratti due film e, dopo questi, lo stesso romanziere ha diretto due film, pieni di angosciose paure, discelanti e rilevatrici come il “cuore” di Poe: il documentario Retour à Kotelnitch, viaggio in Russia sulle tracce del contadino ungherese András Tomas fatto prigioniero dai sovietici e riemerso da un ospedale psichiatrico dopo oltre cinquant’ anni d’ oblio, e L’ amore segreto, tratto dal suo Baffi, a proposito del quale disse che il cinema era “la sua secolnda dimensione narrativa”, in cui “cambia solo lo sguardo, l’ inquadratura. Nel 2010 lessi che stava lavorando a “La vita”, romanzo biografico dedicato a Eduard Limonov, scrittore franco-russo e fondatore del partito nazionale bolscevico e, ancora, non persi nessuna uscita (nonostante il mio francese ormai ammaccato), “Facciamo un gioco”, racconto a puntate su Le Monde, che scatenò una vera e propria crisi di coscienza, in cui si rivolgeva a Sophie, la donna con la quale stava vivendo una passione travolgente, chiedendole di realizzare fantasie sessuali sempre più estreme e che, dopo tale pubblicazione, mise fine alla relazione con lui. Carrère oggi considera la pubblicazione una delle perversioni tipiche del suo passato in guerra con se stesso, la vita che provoca libri, oppure i libri che provocano la vita, fra finzione e verità ed aggiunge che, ancora una volta, la paura, suo grande avversario, non risulta affatto essere stato sconfitto. La paura nasce dalla scarsa autostima, dal timore del rifiuto, è un’emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza che si sente continuamente minacciata. Essa induce l’ira, l’esplosione incontrollata e pericolosa e rubba ogni prospettiva di futuro. E’ soprattutto la paralizzante paura, ha scritto Bruce Sterling, con William Gibson fra i maggiori rappresentanti dei “cyberpunk”, la causa prima di un futuro senza forma, imprigionatio nel cemento e che rinuncia a modelli nuovi e diversi da queli che danneggiano il clima, avvelenano la popolazione e fomentano le guerre per le risorse. Così la paura, soprattutto della novità, è alla< base del panico attualem diffuso in seno alla società, ampiamente stratificato nelle diverse classi sociali, mascherato sotto diverse aspetti nevrotici. In uno studio di qualche hanno fa, effettuato su un campione di 394 soggetti, emerse che gli eventi più stressanti per un individuo risultavano essere i cambiamenti, come la morte di un coniuge, il divorzio, o la separazione; cioè tutte quelle circostanze in cui avviene un distacco e siamo in qualche modo costretti a riorganizzare la nostra esistenza. Generalmente l’esordio del disturbo di panico avviene proprio all’interno di un contesto di cambiamento di vita come l’inizio di una nuova attività, l’iscrizione ad un’Università, un trasferimento in un’altra città, o anche alle soglie di un matrimonio. Momenti in cui gli abituali stili di vita possono cambiare radicalmente, segnando un passaggio nella storia dell’individuo, e portando in sé la paura del nuovo. Una delle caratteristiche dei resoconti di chi soffre di attacchi di panico è quello di essere caratterizzati da una descrizione stereotipata del periodo precedente all’insorgenza del disturbo: come se ci fosse una linea ben marcata che segna la differenza tra lo stare perfettamente a posto e il cadere nella patologia. È come se l’individuo si rifugiasse in una dimensione che ha più a che fare con il mito che con gli avvenimenti passati; descrive porzioni della propria esistenza in espressioni lapidali: un’infanzia serena e spensierata, un’adolescenza turbolenta, una vita integerrima: queste ricostruzioni storiche però sono spesso traballanti ed impediscono ogni possibilità di vera comprensione. Quale che sia il cambiamento da affrontare è bene prendere in considerazione la considerazione secondo cui nulla rimane lo stesso ad aeternum, eppure non è difficile cadere nella trappola mentale di elogiare un qualche tempo passato in cui tutto sembrava andare perfettamente: i bei tempi andati: quando ci sentiamo bloccati dobbiamo capire che è impossibile che ciò che è nuovo non invecchi, che ciò che è funzionante non s’inceppi, che tutto rimanga uguale a prima. Ecco perché Pier Paolo Pasolini scriveva in degli splendidi versi che “Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. Dà angoscia il vivere di un consumato amore. L’anima non cresce più”. Ebbene, sono tanti che si appassionano ai “consumati amori”, a tutto ciò che è passato vivendo in maniera inconsapevole il presente: quando il passato viene utilizzato come punto d’appoggio per svalorizzare il momento attuale allora sappiamo di stare commettendo un pericoloso sbaglio poiché ci si lascia sfuggire tutte quelle occasioni che sono davanti ai propri occhi. Erich Berne, padre della analisi transazionale, descriveva questa sorta di autoinganno attraverso l’analisi del mito della bella addormentata nel bosco: la principessa si addormenta punta da un fuso ma dopo tanti anni il principe la bacia e lei si sveglia e vissero felici e contenti; con l’unico piccolo particolare che nella realtà la principessa ha vent’anni di più, e li ha persi dormendo. Ciò che è necessario capire in questi casi ed in tutto il nostro incerto presente, spaventato da crisi econiche, politiche, sociali e di valori, è che indispensabile volgere lo sguardo verso il futuro focalizzando l’attenzione sulle proprie possibilità evolutive e, ancora, per fare questo dobbiamo avere la capacità di saper guardare al nostro passato capendo il modo in cui lo si utilizza; perché è solo così che possiamo ritrovare un nuovo equilibrio e l’accettazione di nuove forze in campo: per dirla con le parole dell’antico filosofo greco Eraclito, scoprire che “Panta rei”, tutto scorre. E tutto deve scorrere se non vogliamo trasgormare la vita in un simulacro ghiacciato, dominato dalla paura. Scrive Ceronetti che le conseguenze psichiche e mentali del nutrimento industriale (mentre si prepara il sintetico) e dei farmachi assorbiti fin dall’infanzia, si fanno già sentire, attrraverso la paura che genera l’indotto mediatico che pasventa un vuoto disastroso, in loro assenza. L’anima contagiata scuote il suo impoverimento e la sua disperazione sull’ambiente, come gocce di acido solforico. L’ambiente in cui tante facce interne si ripercuotono massicciamente – una luce grigia di devastati, un’accumulazione elettrica di desideri e di bisogni – si sfoga in piaceri di degradazione, i cui rantoli sono i missili lunari, lampo di fiumi deviati e di limi soffocati, di sardine abolite e di coralli morti. Parole forti che non vogliono soffrire, sudare, dsanguinare nuove idee e nuovi modi di vedere il mondo, di guardare al nuovo senza paura, come fecero eraclite e Diogene il Cinico, che solo in apparenza odia l’uomo ed invece lo ama, odiandone le paure, la incapacità a cambiare ed essendo intollerante nei confronti dui una falsa tolleranza che accetta tutto, acriticamente, roscesciandoci addosso la paura che ogni novità rovinerà irrimediabilmente il mondo.


09 Dicembre 2013

Categoria : Recensioni Libri
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