Il racconto: volando – Il ragazzo aquilano che voleva diventare poeta e diventò pilota
(di STEFANO LEONE) – Quando volo osservo la natura con gli occhi del bambino. Vivo la vita con stupore e con paura. Con rabbia e con amore. Sono il poeta del vento. Quando volo mi stupisco del cristallo che rende azzurro il cielo e bianche le nuvole d’ovatta. Luminose le stelle. Scrivo i miei sogni mai sognati. Offro l’affetto mai provato. Scrivo per cantare e per lenire il dolore mai sofferto dai prigionieri del pensiero.
Quando volo dono me stesso a tutti. Uomini e donne. E mi sento onnipotente. Per questo sono insoddisfatto. E torno a scrivere. Per dare. Per prendere. Quando volo svanisco come una chimera. Sono un’illusione di grandezza. Uno spirito onnipotente. Ma sono un poeta. E la poesia crea ogni cosa. Trasforma in luce ogni palpito di vita. In emozione ogni spunto di pensiero. Sono il poeta del volo. Mi tuffo giù in picchiata nelle valli di lacrime e m’impenno su in cabrata per le vette alte dei successi fugaci. Sorvolo campi e boschi. A volte passo a sfiorare le piccole onde ballerine dei laghi di montagna e attraverso la spuma bianchissima dei ruscelli di campagna. A volo radente. Quando volo posso spingermi fino all’orizzonte estremo dove il mare blu s’incontra col cielo azzurro.
Un giorno punterò dritto le ali in cabrata con manetta avanti a tutto motore. Salirò verso l’alto finché l’elica non avrà più respiro. Né aria da mordere. Un palpito estremo di vita. E ancora più su. Fino alle sorgenti della luce, dove non si ha più voglia di tornare indietro. Sono il poeta del dolore. Facevo toccate e fughe veloci dalla mia città. Ma questa volta sono tornato per restare. Perché non sono più solo a rivivere l’incanto sempre magico di questa città e della sua gente. Quando volo, per l’intera notte guardo le stelle, abbracciato ai miei pensieri.
Orione… Cassiopea… Orsa maggiore… Orsa minore. La Stella Polare. Poi arriva la luna. Sono il poeta del vento. E vengo da lontano. Ho attraversato terra mare e cielo. Spingendomi oltre ogni confine. Spesso ho perso ogni speranza, perché la forza viene meno. Ma ogni volta un luogo bellissimo m’appariva inaspettato.
Palazzi incantevoli, strade sempre gremite. Laghi e aiuole dappertutto. E alberi e colline, e monumenti straordinari. L’Aquila. La mia città. Con i suoi misteri e le sue mille magie. Per restituirmi la forza. Sono tornato da lontano per ascoltare ancora il silenzio della mio quartiere. E’ più eloquente d’ogni parola. Animato unicamente dal sibilo gentile del suo vento invernale. Mentre si fa scuro, la voce eterna e maestosa del suo cuore pulsante diventa più profonda e straordinaria. In questo magico crepuscolo ho voglia di urlare. E piangere. Quando me ne andai, compresi d’aver tradito me stesso, prima ancora di tradire lei. Dolce città. Ma sono tornato, per trascorrere una notte intensa. E tante altre ancora. Qui. Questo silenzio m’invade di fragore, e dal profondo dell’anima mi nasce un urlo di ferita.Come un cucciolo abbandonato, che si dispera invano ululando all’aria, le mie viscere contorte piangono di solitudine. Mi guardo attorno per sfamare gli occhi.
E mentre passano le ore, mi spalmo su questo suolo che sa di neve, di silenzio. Come una volta. E mi nutro, come allora, del buon sapore di passato. Fermo la mente per ricordare. Sapori.Sapore d’infanzia. Sapore di colori. Sapore di casa, sapore d’amore. Amore per la terra. E ripenso…Ali di farfalla. La quota di volo indefinita, l’ambiente sconosciuto. Forse sto volando al consueto livello di crociera. O forse no. Non capisco. Sono sul mare in un paesaggio quasi balneare, dal delicato colore azzurrino. L’acqua trasparente lascia scorgere le rughe del morbido fondale. Sembra quasi che le increspature della sabbia riproducano perfettamente le piccole onde che lievemente muovono la superficie del mare. Memorie antiche del mare Adriatico. Un’acqua luminosa e turchina poco profonda e perfettamente chiara. Mi sorprendo per la lentezza del sorvolo a bassa quota. La velocità è bassissima. Tutto è molto placido. E strano.
Da quest’altezza dovrei avere la sensazione di uno scorrimento rapidissimo delle immagini del suolo. Ma non è così. Un brivido di preoccupazione mi ghiaccia la schiena. Non ci sono ostacoli e il mare scorre a velocità lentissima. Guardo gli strumenti sul pannello di controllo. Secondo i parametri di bordo l’aeroplano sta volando correttamente. Eppure ho l’impressione di veleggiare. E’ come se stessi galleggiando pericolosamente nell’aria. Ho strane sensazioni di disagio ma il volo è tranquillo. Liscio e lieve. Davvero non capisco. Il mio disagio aumenta. All’improvviso avverto un forte scossone accompagnato da un colpo secco come uno schiocco di frusta. Zolle di terra appena arata…. Un fulmine! Una gigantesca scarica elettrica a ciel sereno. Guardo avanti con presagio di catastrofe. Il mare blu dal fondo sabbioso il sole e l’azzurro… tutto scomparso. Di fronte al musone del grosso quadrigetto ora vedo con sorpresa il buio nero più pesto. Ma quando un lampo abbagliante rischiara tutt’intorno è troppo tardi. Il fianco roccioso d’una montagna mi compare minaccioso davanti, e s’avvicina celermente. Ho un lunghissimo istante per realizzare il senso di quello che mi sta capitando. E comincio a ricordare. Dream…. Sono decollato da Milano otto ore fa con destinazione Tokyo. Il volo verso oriente contrae il tempo perché la velocità del sole che ci viene incontro si somma con quella dell’aeroplano che avanza verso il sole. Si parte con la luce del giorno ma il buio sopraggiunge rapidamente. Sono un pilota, primo ufficiale di B747 in servizio di linea. Il comandante si è ritirato in cuccetta per un riposino. Le sue ultime parole mi hanno suggerito di non spegnere il radar. Abbiamo cumulinembi di prua ad alta quota. Poi il rollio dolce d’una lieve turbolenza che preannuncia temporali lontani. Il buio del sole tramontato di fretta dietro uno spesso strato di nuvole nere. Il pennello verde dello schermo radar che disegna il contorno luminescente di grosse nubi all’orizzonte. Devo essermi assopito. Foglie d’ortica eleganti e carnose invitano alla carezza….
Sono l’unico pilota ai comandi e sonnecchio lasciando abbandonato a se stesso l’aeromobile. Forse ho socchiuso gli occhi per sognare il ricordo mai sopito d’una nostalgia struggente. Dev’essere accaduto così. Ho cominciato a percepire qualcosa che assomiglia all’umore che un tempo assai lontano annunciava i temporali di casa mia, nella campagna dell’Aquila. L’erba sale fino alle narici. Odo il fragore delle nuvole basse che s’affrettano all’adunata sul Monte Corno del Gran Sasso. La valle s’adombra in vista della grande pioggia. “Tutti dentro, ché fra poco pioverà”. Raccomanda la nonna. Colte di sorpresa, le pecore si svegliano dal torpore della giornata al pascolo, e indispettite rincasano. Mentre il nonno richiude la stalla. Le prime gocce cadono sempre troppo presto, come presto svanisce l’infanzia spensierata.
Oggi a casa anzitempo per assaporare tutti insieme il profumo delle patate arrostite sotto il coppo, e per parlare. Per ascoltare le preoccupazioni del nonno sui danni che il temporale farà sulla campagna. La parete rocciosa di duro granito, con quella sorprendente eleganza dei suoi ricami d’un candido rosato, viene incontro a questo sogno infantile. Per infrangerlo! Trecentocinquanta passeggeri a bordo, affidati ai miei sogni di bimbo infelice. E’ la fine. Ho paura. Poche centinaia di metri mi separano ormai dalla catastrofe, sadicamente illuminata da un lampo temporalesco. Tra le pieghe della dura roccia riesco a riconoscere alcune chiazze di bianchi ghiacciai in quota, e piccole oasi di piante d’alto fusto. Conifere dai tronchi dritti e affusolati come alberi da vela. Un bel paesaggio davvero! Che sciocchezza… sto per morire uccidendo trecentocinquanta passeggeri paganti e ignari, e io mi godo il panorama. Olmi e ulivi, salici e querce… sono altrove. La mia terra d’Abruzzo è assai lontana. Il tempo sembra dilatarsi all’infinito, come per darmi l’occasione di soffrire fino in fondo l’orrore d’una morte colpevole. Cerco nella mente il ricordo dei miei cari, ma il pensiero s’inceppa e non riesco a rammentare i loro volti, né i loro nomi. Mi ritrovo da solo con me stesso in un istante che sembra congelato. Flash di luce accecante e inutile…. Per un attimo preferisco pensare di essere impegnato al simulatore di volo, o d’essere annebbiato dal sonno, dalla stanchezza o dall’alcool. Ma io sono astemio. E il pensiero consolatorio non funziona. Ritornano insistenti le parole del comandante. “Sta’ attento ai temporali e tieni gli occhi aperti, e il radar sempre acceso.” “Sta’ attento ai pericoli del mondo.” Riecheggia la voce dolce e premurosa della mia nonna contadina, mentre mi stringe per l’addio. E mi mette nella tasca un pugno di terra preziosa. “Per non doverti separare mai da noi”. Mi disse. Mi ero messo ad osservare quella catena interminabile di clusters che si muovevano come materia viva ad ogni passaggio del pennello elettronico. Intanto la fantasia si era abbandonata alle leggende che i piloti anziani raccontavano sui cumulinembi. “Le fucine del cielo fabbricano blocchi di ghiaccio del peso d’un grosso meteorite per poi sollevarli verso l’alto come foglie al vento.” I fulmini schioccano a ritmo incalzante rischiarando a giorno quello scenario infernale. “Non succede niente.” Dice la mamma al bambino spaventato. I tuoni irrompono in cabina provocando terribili boati. La pioggia, resa orizzontale dall’enorme velocità dell’aereo, impatta i finestrini anteriori con rumore assordante. Il ghiaccio cattivo della pioggia sopraffusa rischia di bloccare le superfici di comando. Non voglio morire. Invoco Dio! Mi ascolta! Scoppia il pianto dentro di me, ma il mio volto resta immobile. Tutto nel breve volgere d’un attimo. Addio mia Terra lontana. E’ l’inferno. Una ripetizione eterna dell’errore fatale senza avere la possibilità di cambiare niente. Mi affido all’Onnipotente. E inaspettatamente l’aeroplano s’impenna in una cabrata quasi verticale. La vertigine mi prende lo stomaco. E’ come se la pancia del grosso velivolo, ormai prossima all’impatto, si rifiutasse di scontrarsi con la roccia viva. E all’ultimo momento trovasse una via di fuga. In un baleno l’aria si rischiara in un cielo terso. Sono riuscito, non so come, a svettare. Ora posso vedere la sommità del monte disseminata di macchie sempre più frequenti di verde. Erba di pascoli d’alta quota. E’ la Majella o il Gran Sasso, con in cima il monte Amaro o forse il Monte Corno. Ma cosa importa dove sono, se il sereno d’improvviso torna a splendere.
Dal finestrino di destra scorgo una chiesetta con il suo chiostro che ha tutta l’aria d’un convento. Di nuovo immagini familiari di vita antica. Ricordi struggenti della chiesetta della Madonna Fore. O del convento di San Giuliano. Ove aleggia il ricordo di Frà Panfilo. Dio mi ha ascoltato. E sono salvo. Ora posso finalmente svegliarmi dal mio ricorrente incubo notturno. Il mio pensiero corre al santuario di montagna e ringrazio Dio per avermi consentito ancora una volta di ridestarmi dal mio brutto sogno. Ho scoperto che Dio non vola soltanto per i cieli dell’Abruzzo forte e gentile. Egli è dappertutto. L’ho trovato in Oriente, in sud America ed Indocina, in Oceania ed in Africa. E veglia su tutti i piloti. Credevo d’aver fermato il volo abbandonando l’aeroplano. Invece ho perso le ali lasciando L’Aquila.
Troppo presto ho smarrito le mie colline. Roio, San Giuliano, la Crocetta e Fonte Cacio. Ma è sempre troppo presto quando si parte dall’Abruzzo. Adesso lo so. E sono tornato. Sono tornato alla mia gente e alla mia terra, portato indietro dalla mia anima. E ora, ora che sto per riprendere il volo con la mia Grande Aquila, ora che sto per tornare a solcare i cieli dell’Equatore e del Tropico del Cancro, non sarò mai più solo. Adesso lo so.
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