Quelle ingenue castagne per i morti
L’Aquila – (di G.Col.) – I frutti dell’autunno, ma anche il poco che si trovava nelle dipense delle case di paese, un tempo veniva “diviso” con i defunti. Impensabile oggi una cosa del genere, che era invece normale e osservata da tutti con semplice e innocente devozione, anche da parte dei pochi laici che fingevano di essere mangiapreti. Ciò che vi raccontiamo era un’usanza diffusa nei paesini dell’Alta Valle dell’Aterno, nell’Aquilano, ma anche in altre contrade abruzzesi, fino a non moltissimi anni fa.
I poveri preti di campagna non campavano certo alla grande. Anzi, la maggior parte di loro viveva di stenti, in canoniche buie e fredde appartenenti a parrocchie poverissime, spesso senza corrente elettrica. I fedeli erano ancora più esangui e si viveva unicamente dei frutti della terra e della micragnosa agricoltura di montagna. Nei paesi erano rimasti solo anziani, e l’unico sostentamento erano magrissime pensioni o striminziti orticelli, una vacca o due tre pecore, qualche capretta, i più fortunati anche un maiale. L’asino smunto e paziente, quasi sempre vessato e bastonato, serviva a trasportare fascine per il fuoco raccolte nel bosco. Nel pentolone nero si scaldava l’acqua al fuoco del camino.
A fine ottobre, per Ognissanti, per la celebrazione dei defunti (la notte dei morti), la chiesa restava aperta: una fioca luce ritagliata dalla porta nelle tenebre al più rischiarate da luetici lampioncini con lampada a filamento. La buona gente del paese si incamminava, a sera, verso la chiesa, chi con un sacchetto di granturco o di grano, chi con le castagne, le noci, le mandorle, fave secche, qualche meloncella raggrinzita, due patate, quando andava bene anche un po’ di dolce fatto in casa. Addirittura qualche spuntatura di maiale o qualche fetta di salamella. I doni per i morti si depositavano in chiesa, vicino all’altare. Le donne imbacuccate di nero, segnatesi, se ne andavano in silenzio. Erano i doni per i morti. Qualche perpetua occhiuta notava se una famiglia non aveva donato ancora nulla, e andava a trovarla per le recriminazioni: “Tu non hai portato niente, attenta che i morti verranno da te…”.
La notte dei morti sui davanzali di pietra delle povere case scrostate e malferme, comparivano dei lumini accesi tremolanti al vento freddo: erano le luci per rischiarare il cammino dei morti che tornavano tra i vivi, solo per quella notte, solo per libare con i doni delle persone pie e mute.
Naturalmente, i doni finivano sulla modesta tavola del prete e delle sue collaboratrici, inclusa la perpetua titolare. I morti non avevano fame, né ne hanno adesso, o ne avranno mai…
Questa tradizione timorosa e remota è sparita da decenni. Oggi c’è Halloween, sarabanda terrorifica importata dalle brumose lande dei Celti, trapiantata in America e rimbalzata da noi. Nell’orrore artificiale di plastica e luci abbaglianti, si balla e ci si prende gioco della morte. Le streghe (presumibilmente oggi numerose più di ieri) si truccano gli occhi e le labbra. Le zucche ornano i giardini, o restano (come quest’anno) malinconicamente invendute nei supermercati. Quelle vuote che circolano tutto l’anno sulle spalle di tante persone riavranno presto, trascorso Halloween, i loro spazi e ruoli. L’orrore, i mostri e le streghe sono ovunque nel mondo, ad Halloween si manifestano, tutto qui. Hanno un picco.
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