La Giancarli e gli altri per la cultura
(Di Carlo Di Stanislao) – Il Sindacato Nazionale Scrittori (SNS), fondato nel 1945 da Giuseppe Di Vittorio, intende rilanciare una vertenza culturale nazionale e chiama gli scrittori, gli artisti, gli operatori culturali di ogni settore, le grandi Organizzazioni Sindacali e tutti i Sindacati di categoria, le forze democratiche presenti in Parlamento e nel Paese, ad una iniziativa permanente e di lunga lena che , nel quadro della difesa e attuazione della Costituzione, rivendichi una radicale modifica del rapporto tra PIL e spesa per la cultura e, contro l’egemonia e il predominio ideologico e politico della merce e del denaro, avanzi una controproposta di civiltà del pensiero e della vita, di progresso umano e sociale di tutti, per tutti, di “riforma intellettuale e morale” dell’Italia.
Per discutere su tali scopi ha indetto unconvegno che si svolgerà a Roma il prossimo 22 ottobre, nella Sala delle Colonne di Palazzo Marini, in Via Poli 18, in cui si parlerà anche, grazie alla aquilana Anna Maria Giancarli, di cultura e di ricostruzione.
Presieduto da Mario Quattrucci, Presidente del Coordinamento del SNS, il convegno intende mettere in primo piano l’importanza del pensiero e della cultura nel progresso umano e sociale e srà aperto da una lettura di Mario Lunetta, scrittore e Presidente emerito del SNS e concluso da un intervento di Massimo Cestaro, Segretario Generale del Sindacato Lavoratori della Comunicazione (SLC) – CGIL.
Da sempre l’uomo nel suo cammino ha sentito il bisogno di fermarsi a riflettere sulla strada percorsa e su quella che lo attenderà: ogni società umana, in epoche storiche e in luoghi diversi ha sentito la necessità di conservare memoria del passato, trasmettendone il racconto di generazione in generazione, e di interrogarsi sul futuro, cercando in qualche modo di riconoscere il senso della propria storia. Alcune si sono nutrite dell’aspettativa rassicurante di un futuro, certo o probabile, migliore del passato, come altre hanno concepito l’idea opposta di un’età dell’oro, irrimediabilmente consegnata a un mitico e mai abbastanza rimpianto passato.
A partire dal XVI secolo, l’idea ottimistica del progresso ha pervaso largamente la civiltà dell’Europa occidentale moderna: partita dopo le scoperte geografiche alla conquista del mondo, ha alimentato il dinamismo economico della sua borghesia, si è esaltata nelle sue rivoluzioni politiche, dirette ad affermare i diritti di libertà, uguaglianza e fratellanza tra gli uomini, e ha celebrato i suoi maggiori trionfi con la rivoluzione industriale che ha accresciuto a dismisura il potenziale di beni e risorse disponibili per l’umanità. Testimoni e beneficiari di passi da gigante ininterrotti della tecnica, gli uomini del XIX secolo sono stati indotti a battezzarlo “il secolo del progresso”. La nozione di progresso, allude a una particolare concezione della storia, secondo la quale implicita al divenire storico vi è una nota specifica di perfezionamento, di avanzamento verso gradi o stadi superiori, di trasformazione graduale e continua dal bene al meglio. Contiene quindi, ineliminabile, un elemento di speranza o di fede nel futuro: è perciò anche un modo positivo di intendere il tempo, che viene vissuto come dimensione necessaria ai fini della realizzazione del mondo e dell’uomo.
Verso la fine del Novecento, invece, malgrado conquiste tecniche ed economiche inconfrontabilmente superiori, l’umanità è sembrata guardare con più angoscia che fiducia al proprio futuro: l’idea di progresso pare irrimediabilmente in crisi.
È una ragione in più per riflettere su quali ne siano state le radici, su quali fondamenti razionali questa idea si sia costituita e quali ne siano state le diverse formulazioni nella storia del pensiero.
Questi e temi, calatio nella può stringente attualità, che affronteranno la Giancargli e gli altri relatori, convinti che occorrta ofggi più chemai rifarsi alla cultura per recupare un senso ed una prospettiva di vero cambiamento.
Insomma, senza glofofobia (secondo una felice definizione del presidente messicano Zedillo), senza quello che Beck definisce un protezionismo “verde, nero o rosso”, con tesi fondamentalmente riduzioniste a livello intellettuale e tradizionaliste sul piano affettivo, ma anche rinunciando alla “modernizzazione” e “americanizzazione” di Friedman, che pretende di esportare anche nella cultura il modello liberista e della cultura di massa, i massimi scrittori nostrani ci parleranno di un mondo ormai interrelato e interdipendente, che comunque non va confuso con l’assunzione di modelli che privilegino solo il profitto come unica variabile del processo e della cultura come forza e molla per creare società in grado di trovare un equilibrio di forze per evitare catastrofi ambientali e sociali; assumendo consapevolmente il pericolo esistenziale insito nei nuovi orizzonti secondo cui il pensiero non deve coincidere con il calcolo della propria utilità individuale.
Insomma, come ha scritto l’economista Rifkin: “tutto dipenderà da come sapremo bilanciare la commercializzazione della cultura e quindi della vita e il mantenimento di tradizioni, di relazioni, di spazi culturali non mercificati”, perché dobbiamo difendere le nostre storie e, soprattutto, divenire consapevoli che non bisogna partire dall’economia per arrivare alla cultura, ma fare il contrario.
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