Tre anni luce (con Perdonanza)
(Di Carlo Di Stanislao) –
Il ricordo attraverso la memoria di altri, con uno sguardo ad un passato non vissuto, ma sentito raccontare, che però, direttamente, ci riguarda. Questo il tema di “Tre anni luce”, romanzo di di Andrea Canobbio, che non è piaciuto alla critica di destra (“il Giornale”) e moltissimo a noi: una narrazione ispirata di fuga e rincorsa, che si intreccia in una complessa trama di legami familiari che rivelano i propri sintomi, metafora tangibile di un rifiuto originario (l’inappetenza del figlio di Cecilia) e della dimenticanza, come condizione di sopravvivenza (la madre anziana di Claudio che perde la memoria, ma non l’eleganza né la sapienza di donna).
Racconto con tre protagionisti (Claudio, Cecilia e Silvia) e vari comprimari (madri, ex mogli e mariti, figli), dove, piano, emergono silenzi e non detti e dove il dolore che va e viene non può essere coerente, poichè la sua “manifestazione è ridicola, se protratta oltre misura” ed è quindi diuito fra separazioni, amori finiti, perdita del padre, rinuncia indicibile di un figlio e malattia.
Un passo dell’autobiografia ‘rivisitata’ di Nabokov, “Parla, ricordo” ci da il filo conduttore del romanzo, scritto con stile minuto e preciso, atto a definire con straordinaria abilità luoghi (sullo sfondo, una città di fiume la cui dolcezza del profilo sembra alludere a Torino) e stati dell’anima che non si presentano mai immediatamente e completamente decifrabili alla coscienza.
Edito da Feltrinelli, finalista al SuperMondello, “Tre anni luce” è l’ultima fatica di Andrea Canobbio, torinese di 51 anni, traduttore ed editor, che ha esordito come scrittore nel 1986, pubblicando il racconto Diario del centro nell’antologia Under25-Giovani Blues curata da PierVittorio Tondelli e che, dopo tre anni di lavoro alla Bompiani, ha vinto, nel 1989 con la raccolta di racconti Vasi cinesi, edita da Einaudi, il Premio Grinzane Cavour e quello Mondello Opera Prima.
Innamorato delle geometrie narrative (forse per un antico progetto che lo voleva architetto e non laureato in economia e commercio, come scrive il questo ultimno libro), concepisce in modo diverso, sempre per Einaudi, il suo terzo romanzo: Padri di padri, pubblicato nel 1997.
Dopo aver pubblicato per Rizzoli, nel 2000, Indivisibili, e nel 2004, per Einaudi Il naturale disordine delle cose, vince nel 2008 con Presentimento, della piccola casa Nottetempo, il Premio Internazionale D.H. Lawrence per la narrativa di viaggio.
Prima di questo, avevo molto apprezzato (sempre per Einaudi), “Traslochi”, secondo romanzo datato 1992, con un protagonista (anciora Claudio) nostalgico di abitudini che non può più coltivare e alla ricerca di valori fissi almeno quanto l’alternarsi delle stagioni e la doppia elica del Dna, che tende a replicare comportamenti ed esperienze che possano dargli un sentimento di stabilità, ma che si rivelano quasi sempre fallimentari e comportamenti maldestri, con cui aggrapparsi, senza successo, alle cose che intorno subiscono infinite metamorfosi.
A pensarci ora, mentre mi preparo alla nostra 719° Perdonanza Celestiniana e ripassso mentalmente i contenuti dei tre film che, come Istituto Cinematografico Lanterna Magica de L’Aquila, abbiamo scelto per l’occasione (proiezioni alle 21,30, in luoghi-simbolo della città, il 26, 27 e 28 prossimi), mi viene in mente che oltre al ricordo e al dolore c’è in “Tre anni luce” il tema del perdono, visto non come “atto”, ma come “processo” che ha bisogno di tempo: anni luce appunto, che servono a dissolvere i risentimenti e a lenire le ferite che, inevitabilmente, si sperimentano all’interno dei rapporti umani e del vivere quotidiano.
E sono felice di aver trovato, con gli altri della “Lanterna Magica”, tre titoli diversi ed inattesi, appartenenti a gbneri e periodi differerenti per parlare di questo tema: “I giorni della’ira” di Tonino Valerii, “This Must Be The Place” di Paolo Sorrentino e “Secretum Secretorum” Germano Di Mattia, tutti e tre capaci di ricreare, in forme diverse e in quello spazio ricolmo di magia fra noi e lo schermo, le suggestioni necesarie per comprendere tale processo, diverso dall’oblio, ma capace di renderci più consapevoli e migliori, attraverso con un viasggio dagli inferi al paradiso nel caso di Sorrentino, nell’edipo risolto in modo drammatico e definitivo in Valerii e con una impronta di spirirtualità non banale nel docu-film su Celestino V, vincitore del Festival del Salento nel 2010, finito di girare poche settimane prima del terremoto del 6 aprile, opera per certi versi profetica, che parla di fatti che avrebbero portato L’Aquila al centro delle cronache di tutto il Mondo.
Nella prima serata, lunedì 26 agosto, prima della propiezione de “I giorni de l’ira”, western adulto con innovativi piani di ripresa e tematiche psicologiche sociologiche complesse, sarà tributata una Targa d’Oro alla Carriera al regista monteriese Tonino Valerii, entrato nel mondo del cinema nei primi anni sessanta, prima come aiuto regista e sceneggiatore, autore insieme a Ernesto Gastaldi della partitura di “La cripta e l’incubo”, con esordio dietro la macchina da presa nel 1966 con il western “Per il gusto di uccidere” e poi dopo aver firmato altri buoni prodotti, come “Il mio nome è Nessuno” e l’ottimo thriller “Mio caro assassino”, passato attraveso vari generi, fino a giungere, negli anni 2000, alla tv.
Dal 2003 Valerii lavoro ad una biografia su Sergio Leone e dal 1996 è direttore artistico del Roseto Film Festival Opera Prima, kermese dedicata ai giovani autori italiani, in cui è coordinato da Mario Giunco a cui, sempre il 26, la Lanterna Magica tributerà una Targa D’Argento per meriti culturali.
Infine, sempre per la Perdonanza, il 27 agosto, sarà presentato il pernultimo e discusso film di Sorrentino “This must be the place”, un road movie incentrato sullo smascheramento ed il perdono ed insieme un film sul complesso mondo delle rock-star, molto più riuscito del vuoto “Control” (2007) di Anton Corbijn dell’oscuro “Last Days” (2005) di Gus Van Sant e del visionario ma sconclusionato “I’m not there” (2007) di Todd Haynes.
Facendo seguito ad una mia profonda convinzione (espressa già lo scorso anno), più che mai adesso L’Aquila ha bisogno di perdono, atto lento e progressivo di recupero attraverso un lento lavoro psicologico, spesso doloroso, che implica il superamento dei sentimenti negativi e l’assunzione di un atteggiamento positivo chenasce da un atto di volontà e contemporaneamente da un atto creativo, un percorso a spirale attraverso il quale riattraversare i propri ricordi, le proprie matrici psicologiche e relazionali: una rivelazione nel presente della cronologia che nel momento stesso in cui si svela si rivela.
Il perdono, come afferma Pietro Celestino, è un principio di libertà, vera, assoluta, autentica, fatta di consapevolezza di Sé e rispetto degli Altri e la scelta dei film di quest’anno, in cui, come nel 2009, noln potremo attraversare la “Porta Santa”, ci aiuterà a ricordarlo.
Non c'è ancora nessun commento.