Quando a Porta Bareta l’Avaretta evadeva il dazio con le sacche nascoste
L’Aquila – (di Gianfranco Colacito) – (Immagini: accanto la mappa dell’intera cinta muraria, sotto Porta Bareta e un suo dettaglio ingrandito – Da Internet) – L’elegante progetto caldeggiato dal sindaco Cialente e dall’assessore Di Stefano, per il recupero di Porta Bareta al posto dell’orribile cavalcavia in cemento armato su via Vicentini, ci ha spinti alla curiosità : saperne di più di questa magnifica porta aquilana, che si vede benissimo in una mappa del 17° secolo (riprodotta qui accanto, ). L’unica o una delle poche con una monumentale antiporta e un fontanile in pietra, oltre a stemmi della città in ferro battuto.
Tutto scomparso alla fine dell’800 sotto i picconi e l’ignoranza di una progettazione tanto famelica di profitto, quanto zotica. Quella che rese possibile l’accesso a via Roma lungo un terrapieno in forte pendenza, che sta sparendo sotto le ruspe.
RICORDI E L’AVARETTA – Sia a Cialente che a Di Stefano (che leggendo capirà meglio e forse attingerà ai ricordi del suo paese di origine) vogliamo rendere omaggio con una rievocazione. L’abbiamo tirata fuori dai ricordi di qualcuno incontrato a Barete e nei dintorni.
La porta si chiamava Bareta, infatti, dal nome di Barete, che sulla bocca della gente locale è Labarete, ovvero l’antica Lavaretum, nel cuore dell’area sabina originaria, poi terme romane sul fiume Aterno, oggi studiate sotto la chiesina di S.Paolo. Carne a cuocere, anche storicamente, ce n’è tanta…
UN’IMPRENDITRICE – C’era 70 anni fa una donnina intelligente, benchè analfabeta, che chiamavano l’Avaretta. Vispa, circa 90 anni. Aveva messo su un piccolo “impero” commerciale e “bancario”: vendeva di tutto, o prestava di tutto, dietro interesse giusto e onesto. Tassi da brava donna. Misure fatte con tacche sul legno, simboli di oggetti (quasi geroglifici, ma lei non lo sapeva…). Dava grano, vino, olio, frutta secca. Il suo centro commerciale andava alla grande. Un’imprenditrice con i fiocchi. I figli studiavano a L’Aquila. Lei aveva costruito un’economia sana, pulita, basata sul lavoro e sull’onestà . Una donna stimata, l’Avaretta.
A L’AQUILA PER VENDERE – Lei giovane, e come lei sua madre e sua nonna, arrivavano a L’Aquila un po’ a piedi e un po’ in calesse, o in groppa all’asinello. Portavano merci per i negozianti e per i privati. Facevano affari. Arrivate a Porta Bareta, allora ingresso della città che torreggiava dientro la cinta muraria con i merli e i torrioni di guardia, le pie donne dovevano superare i gabellieri del dazio. Evadendo il dazio, s’intende, perchè gli italiani somigliano a se stessi in tutti i tempi. Ci riuscivano benissimo. Come?
LE SACCHE SOTTOGONNA – Le pie donne indossavano corpetti, scialli, e ampie gonne plissettate, lunghe fino a piedi. Nessuno poteva pensare di mettere le mani sotto le loro gonne, tanto meno i rozzi armigeri (magari anche alluzzati da qualche piacevole rustica). Le guardie daziarie femminili non c’erano. Si dichiarava alle guardie: “Non porto niente…”.
Prima di partire le donne avevano indossato una cintura di stoffa, alla quale erano ben allacciate due sacche capaci e profonde per insaccocciare formaggio, salumi e quant’altro sarebbe stato venduto agli aquilani. I RICCHI MAI CONTROLLATI – Così si evadeva il fisco, il dazio. Del resto, raccontava l’Avaretta, perchè noi povere dovevamo pagare dazio, se uscivano ed entravano carrozze di signori e di ricchi, che nessuno controllava? Anche in questo, italiani sempre uguali a se stessi…
Il recupero di Porta Bareta e la riqualificazione dell’area con le nuove strade, le rotatorie e si spera molto verde con una buona illuminazione notturna, è un’opera di grande respiro, intelligente e colta. Finalmente un progetto da capoluogo, da città munita di cervello. Non è capitato spesso. Come dire senza ipocrisie: buon viso a cattivo, cattivissimo gioco, cioè al terremoto che spazza via il buono ma, insieme, anche tanto ciarpame. Junk si dice in inglese, e non c’è parola più adeguata.
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