L’Aquila, il fattore bellezza e la ricostruzione


L’Aquila – Il 24 luglio scorso si è tenuto all’Aquila, nella basilica di San Giuseppe Artigiano, il convegno “Recuperiamo la Bellezza – L’Aquila modello di rinascita tra identità storica e futuro”, promosso ed organizzato da One Group, società di comunicazione e casa editrice aquilana. Trattenuto a Belgrado da pressanti impegni, all’incontro non ha potuto partecipare Mons. Orlando Antonini, Nunzio apostolico in Serbia e studioso di architettura. Il suo contributo al convegno è stato letto da Francesca Pompa. Lo pubblichiamo integralmente. (gp)
BELLEZZA E RICOSTRUZIONE
(di Orlando Antonini) – Le interessanti riflessioni sulla “Bellezza” confermano quanto opportunamente questa categoria debba esser recuperata, per essere adottata a criterio programmatico della ricostruzione dell’Aquila al posto della formula più semplice e comoda del ‘dov’era e com’era’.

Pur cosciente di parlare nel generale scetticismo, io continuo ad insistere: non deve perdersi assolutamente l’occasione di questa ricostruzione post-sismica per rifare la città dov’era – sì, dov’era, a dispetto dei volgari ‘capiscioni’ che vengono a dirci di abbandonarla; dov’era, dicevo, ma meglio di com’era; ‘meglio’, si badi, non solo dal punto di vista costruttivo ma anche da quello formale, del disegno: della Bellezza, appunto.

Perché all’Aquila c’è un problema che altrove non si pone. Contrariamente ad esempio che in Emilia Romagna, al momento del sisma la forma urbis aquilana si ritrovava in un assetto molto compromesso. Prima la pur pregevole ricostruzione settecentesca, che per essere stata auto-finanziata dagli Aquilani ne prosciugò anzitempo le risorse finanziarie e così rimase incompiuta, poi gli interventi infrastrutturali ottocenteschi, infine la scervellata urbanizzazione novecentesca, avevano sfigurato in più punti la città antica con costruzioni fuori scala e forma e con arrangiamenti di comodo lasciati al grezzo, sventrando anche parte del suo bel circuito difensivo.

Ve ne mostro qualche esempio rappresentativo, al quale il nostro occhio si è talmente assuefatto che non ci si fa più caso.

Queste sono le absidi e la testata Sud del transetto di Santa Giusta. Guardate com’erano state rabberciate dopo il 1703. La parte alta del transetto, crollata, fu arrangiata nella forma goffa che si vede: richiuso il rosone e aperta la brutta finestratura rettangolare; inoltre nel 1905, su pressione di chi dirimpetto non poteva più tollerare il suono delle campane, dalla facciata dove era in origine, il campaniletto fu trasferito sul transetto, da cui è crollato nel 2009. Quanto alle absidi, per illuminare all’interno le nuove cappelle private si squarciarono le eleganti coerenti muraglie in pietra concia due-trecentesche senza poi armonizzarle col disegno generale.

Questo, invece, è uno degli scempi che si è fatto delle nostre Mura Urbiche medioevali. Si tratta di Porta Barete, la principale della città antica, o meglio la parte superstite del suo antermurale – l’antiporta ogivale ora è nascosta dietro il contrafforte ligneo della messa in sicurezza. Ebbene circa il 1823 la sua parte destra fu sventrata per sopraelevare Via Roma e negli anni Ottanta per piantarvi i pilastri in cemento del cavalcavia su via Vicentini. Qui però vada un grande plauso al Comune, a cominciare dal Sindaco Massimo Cialente per passare all’assessore alla Ricostruzione Pietro Di Stefano che è qui presente ed ha condiviso e promosso da sempre l’idea, all’assessore alle Opere Pubbliche Alfredo Moroni, anch’egli partecipe ex todo corde del progetto, nonché a tecnici come Chiara Santoro ed a professionisti come l’ing. Giacomo Di Marco, per l’apertura di mente e la sensibilità che vanno dimostrando nel prendere a cuore il recupero della Porta e delle Mura, il che costituisce, per gli Aquilani in attesa, un segnale altamente ricostituente, foriero di una ricostruzione davvero qualificante e qualificata.

Tornando ai deturpamenti, ecco l’interrogativo che pongo: nella ricostruzione, che si fa di questi casi? Li si riproduce così come sono, nel loro stato deforme? Oppure li si recupera, li si corregge, li si completa anche, se del caso? Oggettivamente, la seconda risposta appare la più ragionevole.

È vero che una ricostruzione migliorativa nel senso qui inteso non è agevole:
- a livello urbanistico non è realistico eliminare tutto quanto di incongruo con la città antica è stato costruito nel Novecento; ma ritengo sia almeno possibile delocalizzare quei nove o dieci caseggiati moderni che maggiormente intaccano e sfigurano le antiche Mura. Ovviamente occorre organizzare percorsi di partecipazione con i cittadini, per far loro accettare tali delocalizzazioni offrendo loro un’edilizia sostitutiva migliore, con premi di cubatura e prospettive di risparmio energetico.
- a livello architettonico si tocca la spinosa problematica delle teorie del restauro. Da una parte abbiamo la posizione conservativa storicista, preponderante in Italia, dall’altra quella, pure conservativa ma più possibilista, minoritaria in Italia ma prevalente nell’Europa d’oltralpe. La prima, applicando impropriamente all’architettura viva i criteri di restauro che son propri a pittura e scultura ed all’archeologia, restaura gli edifici monumentali senza apportarvi integrazioni o rifacimenti di parti mancanti. L’altra, con sfumature diverse, permette integrazioni, correzioni e finanche esecuzioni cosiddette “in differita”, di progetti cioè che non furono completati al loro momento, sicché oggi vari monumenti risultano ben modesti.

Fortunatamente, nella pratica i responsabili statali del restauro sanno sempre trovare il giusto mezzo tra posizioni contrapposte. Il Soprintendente Mancini, ad esempio, nel 2001 a proposito del recupero di San Pietro ad Oratorium, restauro definito esemplare dagli stessi organi ministeriali, scrisse di aver trovato “difformità tra teoria, Carte del Restauro ed altre direttive ministeriali, e la pratica applicativa di un intervento contrastante i motivi deontologici di un restauro”, confessando poi chiaramente che in San Pietro “si sono dovute accettare alcune considerazioni contrarie ai principi delle Carte del Restauro le quali, a loro volta, sono assai imprecise se non adottate in funzioni estemporanee…”.

In fin dei conti, le mie proposte ‘correttive’ possono contarsi sulle dita: per un buon 80% della città antica vale senza dubbio la formula del “dov’era e com’era”. Dico solo, che quello dell’Aquila, con distruzioni da sisma e risistemazioni di comodo senza attenzione al risultato formale, è un caso eccezionale; dunque qui la regola storicista in voga, proprio per superarne contraddizioni paralizzanti, deve pur poter subordinarsi alla regola suprema: la Bellezza.

Parlare di bellezza in questa interminabile crisi economica, con la drammatica disoccupazione specialmente giovanile che sappiamo, la preoccupante carenza di fondi statali, le paralizzanti procedure amministrative e di erogazione, ben note a Comuni e ad imprese, nonché le reticenze dell’Europa, potrebbe apparire un’alienazione. Eppure mai come nel caso dell’Aquila il recupero della bellezza è esigenza dello spirito ma anche grande opportunità economica, occupazionale. Perché vi è un nesso stretto e diretto tra ricostruzione dell’Aquila all’insegna della bellezza e possibilità di ripresa economica. L’Aquila dev’essere ricostruita più bella di prima, correggendone quanto possibile le storture architettoniche e urbanistiche, per poter essere più attrattiva e più competitiva turisticamente, rispetto alle altre città e regioni d’Italia.

La ricetta turistica non viene proposta da un profano come me. Da almeno mezzo secolo gli studi concludevano che la vera ricchezza che il nostro territorio montano possiede – e che non è, si noti bene, né delocalizzabile e né inquinante – è quella turistica, grazie alle sue bellezze naturali, al suo peculiare, ingente patrimonio monumentale e alla valenza culturale della città. Dopo il sisma, il concetto è stato fatto proprio a livello anche istituzionale: il 17 marzo 2012 il noto studio condotto dall’OCSE per conto del Ministero della Coesione Territoriale confermava scientificamente che la ’ricetta’ per la ripresa economica dell’Abruzzo e dell’Aquila era appunto il turismo, culturale e naturalistico. L’esperienza in corso nel suo territorio, di cui abbiamo saputo dal presidente Gabriele Centazzo, dovrebbe ben convincere!
Sorprendentemente, poi esponenti dello stesso Ministero hanno sconfessato le conclusioni dell’OCSE, sostituendo la ricetta turistica con quella universitaria. Anche qui, ripeto e insisto: l’università ovviamente va potenziata, ma quale polo complementare, non alternativo; da sola non basta, è una soluzione che avvantaggerebbe la sola città. Si faccia la scelta a favore dell’industria turistica quale strategia territoriale, per la ripresa economica sia della città sia anche del territorio. E si ponga la bellezza a tema delle politiche pubbliche ed a norma per ogni successivo intervento sull’urbanistica e sull’ambiente in termini di forme, di disegno, cubatura, materiali, colore, ecc. In tal modo l’Aquila si ricostruirebbe più bella, e le infrastrutture specialmente comunicazionali che si disporranno moltiplicherebbero le iniziative turistiche private che stanno già fermentando grazie ad illuminati coraggiosi imprenditori locali.
Purtroppo la normativa che lo Stato aveva varato nel 2010, condizionata dalla comprensibile ondata emotiva dell’indomani del terremoto, segue la formula del puro “dov’era e com’era”. Non delinea un’idea di città, non da’ spazio a recuperi monumentali e riqualificazioni urbanistiche, né traccia una strategia di sviluppo che permetta alla città e al suo entroterra di uscire dalla stagnazione economica in cui versano da tempo: si ripari il danno e basta, questo il succo. Ultimamente, dopo quattro anni dal sisma, con l’esperienza fatta si vanno emanando regole diverse, ma per vari importanti progetti è troppo tardi. In ogni modo, se vi è volontà politica e si ha audacia con i cosiddetti accordi di programma, anche nelle maglie di una normativa del genere è possibile procedere ad una ricostruzione migliorativa nel senso che ho detto. D’altronde solo dimostrando estrema cura per la città antica potrebbe ambirsi a che L’Aquila assurga nel 2019 a Capitale della Cultura.

Una cosa appare chiara: o L’Aquila diventa città prevalentemente turistica, oppure non avrà futuro, diventerà un grosso borgo, il mercato immobiliare stesso crollerà. Se non si vuole questo, ebbene non se ne intralci la ricostruzione migliorativa nel senso qui inteso: se non per senso civico, lo sia almeno per interesse; ne va di mezzo il proprio futuro e quello stesso dei figli e nipoti.

Con ricostruzioni virtuali come queste che vedrete adesso nel filmato realizzato dall’Editrice del mio ultimo libro – la Onegroup – L’Aquila nuova incanterà per la sua bellezza; bellezza la cui ‘potenza’, colpendo l’uomo di stupore, gli apre una ‘ferita’ che diviene per lui, com’è stato ben detto, una ‘feritoia’ sul trascendente, su Dio stesso, la Bellezza in persona.

Non torniamo allo statu quo ante; L’Aquila dev’esser ricostruita più bella di prima: è proprio ciò a cui ci sta spronando il nostro nuovo Arcivescovo.

Orlando Antonini


26 Luglio 2013

Categoria : Cultura
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