Oltre il buio, sospesi tra ruderi e tristezze
L’Aquila – (Di Carlo Di Stanislao) – DOPO LE CELEBRAZIONI E LE PAROLE SI TORNA NON-VITA – Mestamente la città torna alla sua “non vita”, sospesa fra ruderi e tristezze, fra i volti cupi di chi neanche più insegue una speranza e trova difficile credere alle parole del Presidente Grasso, che parla di ricostruzione come “questione nazionale”.
“Enti locali e Stato hanno dato ora continuità agli strumenti per ripartire con la ricostruzione – ha detto Grasso – Ora i soldi ci sono, bisogna scaglionarli con un piano organico. Sia il sindaco Cialente che il ministro Barca mi hanno rassicurato con una prospettiva di ricostruzione tra cinque e otto anni”.
Ma chi ascolta nella celebrazione dei quattro anni di “non vita” di una città distrutta, è ricacciato in un “dejia vecù” che vorrebbe non provare.
Il sindaco Cialente cerca risorse immediate e la senatrice Pezzopane sottolinea che ci vogliono soldi e non parole, mentre il governatore Chiodi, ex commissario per la ricostruzione, lamenta che le istituzioni nazionali, in particolare dal governo Monti, non ha stanziato un euro, dimentico delle mancanze del governo precedente e allargando il discorso ad una intera regione, che col terremoto non c’entra molto.
Raffaele Colapietra dagli schermi dello speciale del Tg1 andato domenica sera ma in seconda serata, per non turbare troppo le coscienze di italiani già molto provati (dalla crisi economica e politica), rimprovera i cittadini che per paura hanno lasciato il centro. Ma non è facile resistere quando anche la speranza va smarrita, fra ritardi e promesse, numerose e disattese.
“Vivere all’Aquila e’ troppo difficile” ha detto Cialente, chiamato sulla stampa nazionale, a partire dal Corriere, “ sindaco a mezzo servizio”, perché rientrato nel suo ruolo di dipendente ASL , mentre le pratiche si accumulano e non vi alcuna certezza neanche sui piani di ricostruzione.
Abbiamo perso in quattro anni 3.500 cittadini e molti altri andranno via, vinti dalla amarezza e dalla disperazione.
Nelle opere “Il concetto dell’angoscia” e “La malattia mortale, ” Kierkegaard tratteggia la condizione di inquietudine e insicurezza dovuti proprio alla condizione di incertezza di fronte alla possibilità e ci insegna che entrambe hanno radici nella impotenza e nel senso di impossibilità.
In psichiatria la disperazione indica una particolare situazione contraddistinta da grave afflizione, da uno sconforto che impedisce all’individuo di essere soggetto cognitivo, criticamente padrone della realtà, legata alla sicurezza di base e con risposte interpersonale soggettivamente determinanti ai fini della gravità.
Il nostro psichiatria Alessandro Sirolli, sempre sul Tg1 “speciale,” ha ammonito che a L’Aquila ormai serpeggia una disperazione silenziosa e strisciante, non esplosiva, ma proprio per questo più deostruente e pericolosa, con una totale mancanza di speranza, in cui l’abbandono sembra la soluzione migliore.
Il nostro è divenuto un Moloch di tristezza disperata, vestito dei lembi stracciata di macerie e cadaveri, la stanza 101 di Orwell, la porta buia che non conduce a nulla.
Ma, come ha scritto Solženicyn nel suo celebre libro che in fondo parla di disperazione e rinascita, a volte avviene che l’uomo, privato di tutto, ridotto ai minimi termini, sfiancato senza pietà, non solo non impazzisca e non muoia, ma addirittura possa innalzarsi, e scoprire una libertà interiore, che prima non aveva mai avuto.
Accade che sotto un corpo ridotto a brandelli e piagato e privato di tutto, la Coscienza possa fare cavalcate di una libertà che non avresti mai ritenuto possibile. Accade che, non solo non vieni disgregato, ma cominci a sentirti migliore, a sentire la tua anima espandersi, a vivere amicizie radicali, a provare compassione anche per un filo d’erba, a sentire forza nel dolore, amore nel dolore.
Così non è di poco conto il tentativo, nonostante tutto, di provare ad essere “Capitale della cultura 2019” e non è privo di significato lo sforzo, fra mancanze e difficoltà di ogni genere, delle istituzioni culturali di andare avanti con allestimenti e progetti. Non ha caso Gerhard Ritcher scrive che :“L’arte è la forma più alta della speranza”, che non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità, dando gioia e forza agli uomini.
Nel suo saggio “introduzione ai problemi dell’estetica”, Mari Trombino scrive che l’arte nasce da un bisogno molto profondo ed è legata al gioco più che all’utilità pratica, eppure è essenziale ai bisogni profondi della vita; essa è leggera, apparentemente vicina alla levità del mondo, alla fugacità di un momento, eppure è tanto legata al senso del sacro che per millenni i sentimenti religiosi si sono espressi attraverso opere d’arte, da Lascaux ai templi greci, alle cattedrali gotiche, dai salmi biblici al canto gregoriano.
Essa appare inessenziale, quasi superflua, eppure è tanto importante che nel fluire delle civiltà i valori che l’uomo ha voluto comunicare e tramandare si sono espressi nelle sue forme, dai poemi omerici alla poesia tragica, alla musica moderna.
Ed è essa, l’arte, che ci permette di chiederci perché continuiamo a considerare incantevole quel panorama o quella piazza, perché istintivamente valutiamo la bellezza come arbitraria sensazione che appartiene alla nostra coscienza ed alla nostra cultura.
L’uomo sfida il tempo con le sue opere e anche quando la bellezza svanisce, una nuova bellezza può essere prodotta.
Analizzando gli scritti di Bloch, Muntser ci dice la categoria della speranza, come coscienza anticipante, si compie quando intravediamo obbiettivi come possibilità reali e ci suggerisce, nella disperazione, di costruirsi obbietti-speranza anche ambiziosi, per uscire da angoscia e depressione.
Scriveva sul Corriere nel 2000 Alberoni, che nessuno può fare qualcosa di significativo se non è animato dalla speranza, se non riesce a farla scaturire da se stesso quando inizia una impresa o nei momenti di difficoltà e pericolo. E che è sempre meglio eccedere nello sperare che nel disperare, perché l’uno appartiene alla vita, l’altro alla morte.
E noi, con la morte nel cuore ed una vita che è solo esistenza, non ci sentiamo ancora morti del tutto, perché vogliamo ricordarci e capire fino in fondo che la speranza non è una vaga possibilità, un barlume incerto, un tenue e timoroso aspettare, ma una luce che squarcia le tenebre un’onda di calore che ci riscalda e ci fa rinascere e che tra le e la disperazione non vi sono gradi intermedi, ma un salto abissale: dal niente al tutto, dall’annientamento alla vita, al riso, alla felicità, al gusto del futuro, alla ebbrezza di fare progetti.
Alcune persone cadono facilmente preda della disperazione, immaginano subito il peggio, e vi scivolano dentro, non riescono più a uscirne. I malati di questo genere fanno un’enorme fatica a guarire perché è come se il loro corpo e la loro mente si mettessero dalla parte della malattia. E i medici, infatti, si sforzano d’infondere loro fiducia, li invitano a voler guarire, a lottare.
Quello che va fatto, capillarmente ed individualmente è perdere l’ombra buia della disperazione, attaccarsi ai piccoli progressi quotidiani e ai grandi progetti futuri, per uscire dalla stanza buia della disperazione che, quella sì, è senza soluzione.
La faccia più profonda della disperazione, per citare Flaiano, riguarda l’autoscoscienza ed è questa che va difesa e non perduta, come grido di speranza a muovere le cose.
Paola Nepi, toscana di Montevarchi, malata di distrofia muscolare dall’età di 9 anni, ha scritto con l’unico dito che riesce a muovere “Le mani addosso”, un’autobiografia struggente e profonda, commovente e poetica, in cui dice che l’immobilità, la dipendenza totale, le difficoltà a risolvere i bisogni più semplici sono fatti costanti di molte esistenze. Ma la speranza di un domani più pieno e migliore non ci tiene solo in vita, ma trasforma una mera esistenza in una vita fatta di speranza.
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