Ricostruzione sì, ma un po’ di normalità?
L’Aquila – LUOGHI IDENTITARI AGONIZZANTI. COSA C’ENTRA IL TERREMOTO? – (di Stefano Leone – foto di Massimo Leone e l’abbandono alla Villa Comunale) – A tutti noi, cittadini, amministratori, progettisti, costruttori è chiesto di pensare anche alla bellezza come guida dei futuri cambiamenti del luogo in cui viviamo: vi sembra solo un sogno? La bellezza?
“Frammenti di uomini ed orrida causalità; pluralità di contraddizioni, di cui la città è luogo elettivo”, la definisce così il filosofo Rella . E’ evidente che L’Aquila, subissata da dibattiti pratici, finalizzati a ricercare risposte puntuali a questioni cittadine , ha sete però di interrogarsi su cose più alte; di recuperare dall’inconscio e dal passato emozioni, memorie condivise , tracce del proprio “essere stati “, per far fronte ai drammi del presente e recuperare la speranza del futuro. Davanti al nutrimento dell’anima, fornito da aspetti come quello della bellezza, crollano come case di cartapesta le strumentalizzazioni locali di piccolo cabotaggio; il costringere il cittadino a testa bassa, mentre tutto in lui anela ad uscire dalla gabbia del contingente per ritrovare altre dimensioni, che dentro gli premono e chiedono d’essere dette. Immedesimarsi nella bellezza del paesaggio della città è camminare in esso: come all’alba dei tempi fece il pastore Abele, ucciso dallo stanziale Caino; il quale, occupato lo spazio, escluse l’esterno: la città. Mentre l’essenza del passato era la bellezza, le avanguardie del XX secolo l’hanno cancellata, sostituendola con la bruttezza . Eventi tragici, come il sisma ad esempio, hanno poi fatto il loro compito grave. Il contemporaneo non è più dotato a priori d’un codice estetico; che tuttavia si realizza quando una pluralità di bisogni materiali si incontrano con un ‘idea immateriale di bellezza. La globalizzazione in atto va nella direzione d’un senso di appartenenza, di ricerca di identità e per questo ci troviamo bene negli spazi cittadini della memoria, nella ” città dei morti “; mentre nelle periferie ci avvertiamo soli e spersonalizzati. La bellezza facilita nella città consenso, convivenza e relazioni, purchè il cittadino la viva come consumatore che si accontenta perché rispetta la vita ed a livello civile si propone esperienze di empatìa , intese come beni di relazioni. La bellezza non è perfezione e funzione dell’architettura, non è salvare il mondo , ma rendere ripercorribile la città ,dotandola di punti di riferimento e snodi nei quali si riconoscano il vicino ed il lontano. Ciò potrebbe significare, ad esempio, pensare L’Aquila come città di “residenti vaganti”, (non più centro città ma periferie fredde e lontane), cui servono orientamenti nuovi; mentre il Palazzo della Ragione da sempre semplifica e rassicura. La complessità dei tempi non autorizza risposte univoche di bellezza , mentre rende necessario prendere atto delle trasformazioni. Per ricercarla, è necessario in ogni città consolidare i luoghi ad “alta densità di memoria “, (e la Villa Comunale a L’Aquila è uno di essi), ed inventarvi al contempo chiavi di lettura attuali, che senza rimpianto per il passato partecipino al processo storico. Non si può arretrare di fronte al passare del tempo. Anzi, bisogna trovare il coraggio di definire comunque la bellezza attuale; in termini di esperienza sensoriale, recuperando il piacere visivo, le emozioni prodotte dal paesaggio urbano e non, facendoci carico della fragilità d’un ambiente, che abbiamo contribuito a distruggere. Serve un’architettura nuova e coraggiosa, che operi in termini di desiderio, piacere, godimento estetici. L’amministratore deve agire in nome d’una bellezza, che dispensi pubblica felicità. La città che più si riesce ad amare? Quella che sa interpretare l’anima del luogo, come Venezia ha fatto col mare; dove i cittadini discutono tra loro di felicità e bellezza; come a Firenze, dove per anni la cittadinanza si riunì nelle piazze, per legittimare l’estetica della cupola del Brunelleschi.
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