Com’è il cuore distrutto della città? Due passi in centro, a guardare l’assenza
L’Aquila – (di Gianfranco Colacito) – Com’è, dopo quasi quattro anni dalla sventagliata di morte dell’aprile 2009, il centro della città? Almeno due volte l’anno, dal 2009, lo abbiamo percorso, a piedi, anche di notte, violando le transenne e i divieti, infilandoci là dove è vietato a tutti meno che a gatti e uccelli. Il 2013 comincia e torniamo a farlo. La risposta alla domanda iniziale è semplice: riposa senza pace. Peggiora, regredisce, si atrofizza nel non-essere.
E’ regno di silenzi e ombre, scricchiolii sinistri e ricordi che ormai somigliano a rimpianti. Insalate di sensazioni dolorose, nelle quali spuntano volti, persone perdute di vista o morte, momenti di una vita lontana e cancellata, in barba a qualsiasi ricostruzione, ammesso che ce ne sarà mai una.
Per guardare e ascoltare l’assenza, lasciamo piazza Duomo, dove troneggia l’albero di Natale e parcheggia qualche auto, abbiamo scelto la zona più bella, storicamente, quella che faceva ammirare il tessuto urbano di una città dal centro storico – è stato detto da autorevoli specialisti – di grande pregio: l’area tra corso Federico II, Santa Giusta, le viuzze artigiane e appartate, le scalinatelle verso via Fortebraccio, i fontanili e gli angoletti di pietra, le icone di madonnelle con fiori di plastica, i portoncini e gli stemmi. Non è difficile sintetizzare: tutto, disperatamente tutto, distrutto o “sconocchiato”, tutto ingabbiato in tonnellate di metalli zincati, chiavarde, travi d’acciaio, tubi Innocenti, legno ormai malconcio, bulloni e fili di ferro rugginosi. Non c’è un edificio, uno solo, che appaia com’era. In quattro anni non è cambiato, se non in peggio, proprio nulla. E come poteva essere diversamente? Fissiamo il vuoto scuro di una loggia su un tetto, percorsa da profonde venature di frattura. Dentro svolazzano due passeri veloci. Schegge di vetro riflettono smorte il poco Sole di una giornata fredda. Sono talmente sporche che non lampeggiano più.
Il palazzo bianco della Madonnina e della libreria Iapadre non c’è più. E’ un buco pieno di rottami, barricato dietro alte palizzate. Nessuno ci lavora. Cantiere chiuso da prima di Natale, vai a sapere qual è il vero motivo. Comunque un vuoto che cambia le prospettive. Via Celestino V è irriconoscibile. Dietro, via Santa Giusta. Neppure una persona in giro, benchè sia mezzogiorno. Compare a distanza un uomo con un cane. Guarda in alto e mormora. Trattiene il cane che vorrebbe saltare verso una vetrina chiusa e sporca: un negozio in cui entrava spesso? E’ la sola persona, quell’uomo, in cui ci imbattiamo in due ore.
Un giovane, forse straniero, è sdraiato per terra ai piedi di Palazzo Centi, e guarda fissamente le fitte impalcature che nascondo la chiesa, interamente ingabbiata. Il solo rumore è quello delle palanche di legno, tipico vicino ad ogni cantiere. Qualcuno lavora. Palazzo Centi è senza puntelli, ma evidenzia possenti “catene” con blocchi esterni di acciaio, che tengono stretto l’edificio provato dal sisma. Nacque dopo un sisma, quello del 1703, ed è tornato al silenzio nel 2009. Chi sa che fine hanno fatto velluti, arabeschi, arazzi, stucchi, specchi, cordoni, volute dorate, dipinti, lampadari, divani polverosi e sdegnosi sui quali posarono i glutei nobili e benestanti, e poi tanti politici. Anche tanti giornalisti. Anche noi. Pare un secolo, da quando il presidente Del Turco amava ricevere la stampa ossequiosa e bisbigliante nella Castellina, in cima al nobile edificio, con vista sulla città. Sarà rimasta in piedi?
Nelle stradine che portano verso San Bernardino un caseggiato dopo l’altro, ormai anche uno uguale all’altro nelle ingabbiature metalliche. Non ce n’è uno sano. Non uno vivo, che mostri segni di vita. Le più melanconiche sono le vetrine di ufficetti e bassi abitati, magari con qualche cartello che racconta di quale ditta o nome si trattava, nell’altra vita. Tanti hanno innalzato coperture e cortine per impedire che si veda al di là di porte, finestre, cancellate. Tentano di proteggere la loro dignità di gente devastata e scacciata. Il dolore e il danno, qualche volta, non sono spettacolo, ma composta separazione da ciò che è fuori.
Proviamo a scendere verso via Fortebraccio lungo una scalinata ripida e pietrosa, tra porte sfondate e finestre pencolanti dopo le mille incursioni dei ladri e degli sciacalli. Troppe pietre, tegole frantumate, rifiuti, erbacce secche, fango scivoloso, pezzi di canali di scolo, immancabile plastica colorata, e ovunque un penetrante, acre odore di urina. C’è chi durante le notti di movida o di semplice sbornia usa il buio e le rovine per pisciare. Tanti, a giudicare dalla puzza. Avevamo un amico, mille anni fa, che la notte orinava negli angoli appartati, urlando che pisciava sul mondo e su tutti i suoi abitanti. Ora pare lo facciano in tanti, ma con meno disperazione di quell’amico tristemente icronoclasta. Solo con grezza volgarità, come va di moda oggi.
La passeggiasta finisce a Sn Bernardino. Si torna al mondo, visto che c’è qualcuno al baretto nei giardini (si fa per dire, giardini). Parlano di risarcimenti, contributi, ricostruzione, ladri e ritardi, geometri e imprese, Comune e Barca, le solite cose di una città che non ha più molto altro da dire.
Privata del passato, ha ridotto il presente a deprimenti ripetizioni e piatte monotematicità. Fa parte del suo ritratto, che ricorderebbe gli urli di Punch, se non fosse il regno del più livido silenzio. Dal quale, stringendo i denti e le dentiere, bisognerà uscire, altrimenti è già finita.
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