Come può funzionare la giustizia civile?
L’Aquila – IL RACCONTO DEL CRONISTA TESTIMONE IN UN TRIBUNALE ABRUZZESE – (di G.Col.) - L’anno 2012 finisce, e con lui ogni flebile speranza che la giustizia civile possa cambiare in meglio in un’Italia in bilico tra lentezze (che evidentemente fanno comodo a qualcuno), scartoffie, inefficienza, mancate risposte dello Stato ai cittadini. E arretratezza da far paura: siamo nell’Ottocento e non lo sapevamo…
Il cronista vi racconta una storia piccola e comune, di cui è stato protagonista, nei meandri della giustizia civile italiana, che vista da vicino è assai peggio di come viene descritta. Può essere definita allucinante, defedante, capace di far morire qualsiasi fiducia residua nel cittadino. E ancora non è descritta come veramente è.
Il cronista è testimone in un tribunale abruzzese tra i maggiori. La causa civile tra le due parti è già datata, iniziata due anni fa, rinviata diverse volte. Alla fine di dicembre, c’è udienza e il teste viene chiamato a dire la sua.
Il teste non è unico. Ce ne sono altri sei. Ma ne viene chiamato uno per volta, il che significa mesi e mesi solo per quella che, in definitiva, è solo una formalità della durata di pochi minuti. Tutti i sette testi potrebbero essere “sbrigati” in una mattinata.
Il teste arriva puntuale: gli hanno detto “alle 9”. Ma alle 9 non ci sono avvocati né giudici. L’aula, di uno squallore senza uguali, è vuota. L’andirivieni nell’atrio del tribunale è da formicaio. Ma è affollato soprattutto il bar.
Poco prima delle 10 si comincia. Il cittadino si domanda: se la giustizia cominciasse a lavorare alle 8 del mattino, come tutti gli altri uffici, forse sarebbe più spedita, meno esasperante nella sua amebica lentezza.
La testimonianza non si rende davanti ad un giudice, seminascosto da carte, faldoni, cartelline sbocconcellate rosa e verde, fotocopie, penne, agende sfilacciate (siamo a fine anno…) e così via. Si rende davanti agli avvocati delle parti. Seduti ad un panchetto quasi al buio (atrio nella penombra, tra ragnatele e pavimenti incrostati di nero). Gli avvocati porgono domande (ascoltate da chiunque si trovi a passare), e uno di loro scrive a penna su un foglio.
Siamo nell’Ottocento. La giustizia italiana è ottocentesca, polverosa, impastoiata tra riti e formalità (bisogna giurare di dire la verità su un foglietto chiuso sottovetro opaco e bisunto) , del tutto impossibilitata ad essere efficiente. Non la vogliono efficiente. Siamo quasi nel 2013 e lì si scrive tutto a penna biro, su pezzi di carta. Non l’ombra di un computer, di un cancelliere che prenda a verbale. Pare una causa da film western, ma è molto, molto più irreale, antidiluviana, precaria.
Il tutto dura cinque-sei minuti. E gli altri testi? “Nella prossima udienza, fra quattro mesi”. Intanto, davanti al giudice vanno e vengono frotte di avvocati con le loro borse, tutti per chiedere un rinvio. Torniamo fuori, nel mondo del secolo Ventunesimo. Arriva un furgone blu scuro con dei detenuti in manette, dirottati verso un’aula di udienza penale.
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