Ricostruzione. E se ci fossimo organizzati in modo diverso?


(di Giampaolo Ceci) – La organizzazione non è mai fine a se stessa, ma è uno strumento per realizzare un “disegno complesso” che la rende necessaria. Molte le critiche, poche le proposte per organizzare uffici e funzioni perché la ricostruzione marci spedita.
Come si riconosce se un modello organizzativo funziona? semplice. Dal fatto che risponde bene alle motivazioni che lo hanno richiesto. La ricostruzione aquilana funziona? No? quindi il modello organizzativo non funziona! E’ semplice!
Nel vuoto propositivo generale devo ricordare alcune mie proposte organizzative che, visto l’andazzo, forse meritano di essere commentate ora, a qualche anno di distanza (la prima proposta risale al 2009!).
Ricominciamo daccapo.
I tatticismi e le valutazioni strategiche o economiche di alcune lobbie locali hanno preso il sopravvento rispetto al problema principale della gente che, ricordiamo dovrebbe essere prioritariamente la ricostruzione della città e quindi della sua economia.
Il problema principale per svolgere la matassa era ed é di tipo tecnico: si ricostruirebbe prima e meglio affidando la ricostruzione di ogni singolo edificio ad una impresa diversa o si farebbe prima se si suddividesse la città nei suoi grandi quartieri naturali e si affidasse la ricostruzione ad un pool di imprese che si auto organizzino?
Sbagliare questa scelta significa ricostruire l’aquila in 5 o in 30 anni.
Oggi si é scelto di suddividere tutto in tanti interventi indipendenti con tutte le conseguenze note e con quelle che ancora non sono emerse.
Come mi sono sforzato di dire, la organizzazione della ricostruzione avrebbe invece potuto essere affrontata in maniera diversa, suddividendo la città nei suoi quartieri naturali, affidandone ciascuno ad un pool di imprese che rispondevano del risultato e pianificavano i lavori delle imprese terze con cui dovevano necessariamente collaborare.
La differenza non é marginale perché ora le imprese marceranno scoordinate. Con una capogruppo invece marcerebbero seguendo precise priorità di intervento.
Vero che, operando per grandi quartieri si sarebbero dovute fare gare europee con progettazioni integrate affidate alle stesse imprese, ma era vero anche che si sarebbero ottenuti sensibili risparmi che avrebbero fatto costruire di più a parità di risorse pubbliche. Vero anche che si sarebbe data trasparenza agli affidamenti riducendo pressioni e collusioni di ogni genere (che oggi nessuno vuole vedere, ma che usciranno) e anche che si sarebbero ridotti i tempi di realizzazione dei lavori, in quanto nel bando le imprese potevano o dovevano lavorare anche a ritmi più serrati del normale.
I lavori di ogni singolo quartiere sarebbero stati pianificati meglio dalla aggiudicataria che avrebbe potuto anche studiare un piano di consegne frazionale quando fosse stato possibile riparare subito le abitazioni con pochi danni.
Anche l’aspetto urbanistico sarebbe risultato più omogeneo se ogni singolo prospetto delle vie fosse stato sistemato “a vista” senza formalità dal coordinatore del pool dei tecnici incaricati e gli esponenti di una commissione di esperti con pieni poteri, designata dal sindaco e dal sovrintendete alle belle arti, senza ricorrere a vincoli o ai piani iperburocratici previsti dalla garantista normativa vigente.
Seduta stante, con semplici schizzi sulle foto, si sarebbero potute concordare la eliminazione delle brutture o dare un aspetto più consono o caratteristico alle via della città rispettando storia e tradizioni.
Nessun irriverente contrasto cromatico, le vie sarebbero state rivisitate negli aspetti e negli arredi e illuminazione.
Se i progettisti erano capaci e la commissione di larghe vedute L’Aquila avrebbe potuto essere ripulita e restaurata alla grande divenendo un esempio di sburocratizzazione e ricostruzione veloce ed intelligente.
Certo, le imprese locali avrebbero dovuto partecipare alle gare dei maxi lotti in aggregazione con altre e i professionisti forse , sarebbero rimasti con meno lavoro, ma queste sono scelte politiche non organizzative.
La scelta del frazionamento in tanti microinterventi comporta di aver scelto l’interesse delle imprese e professionisti locali a discapito della velocità della ricostruzione. Questo gli aquilani lo devono sapere.
In verità, con la scelta della ricostruzione per grandi lotti, anche i problemi legati alla ripresa economica locale sarebbero potuti essere risolti se si fosse agito con l’ottica della emergenza e non quella della normalità.
Sarebbe bastato introdurre nei bandi la clausola che almeno il 30% dei lavori avrebbero dovuto essere subappaltati ad imprese locali con un ribasso massimo del 10 % rispetto al prezzario (in Umbria fu varata una legge analoga) e che i progettisti dei maxilotti dovevano essere scelti dai proprietari tra quelli di loro fiducia e raggrupparsi obbligatoriamente in Associazioni temporanee tra professionisti.
Si sarebbe agito in un quadro di legalità consolidata, potendosi gestire gli appalti con le leggi delle opere pubbliche e controllare con apposite commissioni di collaudo in corso d’opera, che tutto fosse regolare per qualità e procedure.
La imprenditoria locale più lungimirante, forse avrebbe convenuto che non avrebbe potuto comunque ricostruire tutta la città con le sole forze locali (mille milioni (diconsi mille) di lavori l’anno sono velleitari per le sole imprese locali) e avrebbero cominciato a valutare i pregi di un tale disegno organizzativo.
Dopo tutto poter collaborare con imprese nazionali che ti garantiscono il pagamento nei termini non è poca cosa, se la collaborazione consente di acquisire conoscenze e capacità relazionali e organizzative (gestire una grande azienda non è come gestirne una piccola. Realizzare un opera di 2 milioni di euro non é come realizzarne una da 15).
Se questo criterio organizzativo per maxilotti fosse stato impostato fin dall’inizio, a fine 2009 si sarebbero fatte le gare e scelti i progettisti, dopo un altro anno a fine 2010, sotto la spinta delle aggiudicatarie sarebbero terminati i progetti definitivi e ora dopo due anni, il centro sarebbe stato ristrutturato sapientemente per almeno il 50% .
Le imprese nazionali avrebbero premuto sul governo con ben altro peso per ricevere contributi e finanziamenti qualora il flusso rallentasse e le imprese locali sarebbero state garantite nei pagamenti dalle loro affidatarie o al peggio da apposite convenzioni bancarie .
I migliori progettisti locali, tramite i rapporti con primarie imprese nazionali e i loro progettisti di sostegno avrebbero avuto modo di instaurare rapporti con altri studi nazionali per proporsi in ambiti più vasti o avrebbero progettato solo gli interventi fuori dal centro storico che mi pare siano già troppi per le loro effettive capacità tecnico organizzative, visto che non sono riusciti a consegnare tutti i progetti entro la data prefissata del 31 agosto 2011.
La città forse sarebbe divenuta un modello di organizzazione sburocratizzata e forse avrebbe anche colto l’occasione per ripulirsi e consolidare le sue strutture fatiscenti per divenire un centro attrattivo, pur in assenza di un preciso piano strategico di sviluppo che avesse definito le nuove destinazioni d’uso da concedere alle abitazioni ristrutturate.
Una riflessione serena se siamo sulla strada giusta andrebbe fatta.
Per chi volesse leggere una proposta organizzativa funzionale della ricostruzione del 2009 http://www.abruzzo24ore.tv/news/Un–ipotesi-operativa-di-come-organizzare-la-ricostruzione/13358.htm
oppure http://archivio.ilcapoluogo.it/Blog/Il-Capoluogo-dei-lettori/Una-Ri-proposta-organizzativa-36627


04 Novembre 2012

Categoria : Senza categoria
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