L’oltraggio di piazza Nove Martiri
L’Aquila – (di Antonio Gasbarrini) – Una decina di giorni fa mi ero recato nella centralissima Piazza Nove Martiri Aquilani. Per fare un po’ di compagnia a quei nove giovani, d’età compresa tra i 17 ed i 21 anni, trucidati da un plotone di nazisti e fascisti il 23 settembre 1943 come “franchi tiratori” alle Casermette dell’Aquila. I resti dei martoriati corpi riesumati dalle due fosse comuni scavate con le loro stesse mani, fu possibile solamente a metà giugno del 1944 con l’avvenuta Liberazione della città. Alcuni giorni dopo si tennero i solenni funerali e la contestuale intitolazione dell’omonima piazzetta in loro onore, nonché la successiva erezione di un sacrario nel cimitero monumentale dell’Aquila.
Ebbene. Il desolante scenario d’una ingiustificabile incuria della più rappresentativa coscienza civico-memoriale aquilana (la Piazza Nove Martiri, appunto) coincideva con il dolore di due pugni sferrati contro me a tradimento dall’Amministrazione comunale. Il primo dato allo stomaco; l’altro sugli occhi. Una corona rinsecchita appoggiata su un muro sbriciolato dal terremoto e una demenziale, graffitara scritta rossastra, sfiguravano già di per sé i nomi dei Nove Martiri scolpiti nelle soprastanti tre targhe commemorative. Il subitaneo strazio non finiva qui. Guardandomi intorno non riconoscevo più quella stessa piazzetta rimessa a nuovo, tra il marzo e l’aprile del 2010, dalle quattro incursioni corsare del Popolo delle carriole. A quel tempo la zona era “ancora rossa” (dalla e per la vergogna posso ribadire ancor oggi), nonostante fosse passato già un anno dal sisma del 6 aprile. La rimozione dei cumuli d’immondizia e delle macerie, le ordinate cataste di mattoni, pietre e coppi, le violette piantate nelle aiuole, il reading di poesie tenuto il 25 aprile, lasciavano ben sperare. Nulla di più deludente. Ora, davanti a me, nella ex “zona rossa”, quelle disordinate cataste abbandonate a se stesse, sono state saccheggiate dai turisti delle rovine e, molto probabilmente, da costruttori citazionisti; le aiole fanno più che pena; l’azzittita fontana con la bella scultura del D’Antino danneggiata dal sisma, attorniata da rifiuti. In una parola: un’imperante sporcizia fisica ed estetica. Di chi le responsabilità di tanta sciatteria se non del Comune? Fosse finito qui, il mio cahier des doleances!
Il peggio del peggio doveva ancora avvenire. Puntualmente, purtroppo, il 23 aprile del 2012. Ieri, cioè. In cuor mio mi ero augurato che in occasione delle celebrazioni ufficiali previste per il 69 anniversario della strage, la piazzetta fosse ritornata “bella, linda e pinta”, così com’era stata a suo tempo ri/consegnata alla città da Il Popolo delle carriole. Fiducioso, intorno alle ore 11, mi ero recato sul “luogo del delitto” con un mazzetto di fiori viola Settembrini, detti anche Astri (chiara metafora indirizzata ai nomi dei Nove Martiri: Anteo, Pio, Francesco, Fernando, Bernardino, Bruno, Carmine, Sante, Giorgio). Non l’avessi mai fatto! Questa volta una vera e propria botta in testa mi era stata data da un ingombrante furgone rosso con la vistosa scritta giallognola “Paninoteca” parcheggiato ad una trentina di centimetri dall’area monumentale. Ostruendola, perciò, sia visivamente che fisicamente. L’appassita corona ricordata più sopra, si trovava ora affissa nella sua parte posteriore alla stregua di un carro funebre, occultante in gran parte la scritta “La vera porchetta”. Che ci faceva lì, quel sacrilego furgone? Osservando l’oltraggiosa, incredibile scena, la risposta mi veniva data da un filo della corrente che dal mezzo arrivava nel vicino locale “ ex Avana” (un pub?) a suo tempo chiuso sine die dal terremoto. Un faro sovrastante l’insegna, acceso in pieno giorno forse sin dal 6 aprile del 2009, spiegava l’arcano: il furgone stava succhiando energia elettrica per ricaricare la cella frigorifero. Chi era stato l’autore di cotanta infamia? Perché l’Amministrazione civica ha consentito un vero e proprio stupro memoriale, lasciando la piazzetta alla mercé di sconsiderati? Perché non aveva, invece, provveduto a ridare un minimo di dignità urbana a quel luogo sacro tanto amato dagli aquilani? Prima di fuggire inorridito, ho segnalato telefonicamente il tutto alla Polizia Municipale. Avrà provveduto ad elevare almeno una contravvenzione al parcheggiatore abusivo? O peggio ancora: era stato forse autorizzato da qualcuno a compiere quell’empietà?
Un’ultima riflessione. E’ diventata strana, molto strana, la mia città sgretolata. Architettonicamente sfigurata. Completamente imbalsamata nei suoi puntellamenti piranesiani. Socialmente imbarbarita e smemorata. Istituzionalmente imbelle ed inutilmente vendicativa verso i suoi figli migliori. La riprova? Il prossimo 25 ottobre quattro concittadini (E. B., A.P.C., D.G.A. e M.S.) dovranno presentarsi davanti al giudice per essersi inoltrati insieme ad altre centinaia di aquilani, il 28 marzo 2010 (nonostante il ridicolo sequestro delle carriole da parte della DIGOS), proprio nella “zona rossa” della Piazza Nove Martiri per rimuovere macerie e immondizia. In base all’art. 650 del codice penale rischiano l’arresto fino a tre mesi oltre il pagamento di una sostanziosa ammenda. Per un’altra settantina di concittadini de Il Popolo delle Carriole (me compreso) sono previsti a breve altri processi. Sul tragico sfondo della realtà sino a qui descritta, la municipalità aquilana sventola l’oppiacea bandiera di “L’Aquila capitale europea della cultura 2019”. Con quale faccia tosta sta presentando la sua candidatura? Un suggerimento piccolo piccolo ai dis-amministratori della res publica. Se la “retta via” della ri/nascita è stata, come lo è, completamente smarrita, per trovarla e ritrovarla, si prendano nuove, vitali energie dalla lettura di una toccante poesia scritta da Carmine Mancini, uno dei giovani Martiri trucidati: “Oh, io vedo la mia strada! / La nostra strada! / E’ lunga tanto, tanto lunga e lontana, / ma anche breve se essa conduce alla morte / E quanto sole vi splende! / E poi tutto sorride laggiù…! / E io ci credo, noi ci crediamo..! / Ed io ci vado, ci vado correndo / con i miei compagni di lotta, / con tutto il bagaglio di chimere, / di sogni e di ideali. / Ci vado, sicuro di non restar solo / con la mia speranza”.
Carissimo Carmine, carissimi altri otto sventurati compagni della protoresistenza italiana. Continuate a riposare tranquilli: gli aquilani più sensibili (ce ne sono ancora tanti, nonostante la persistente diaspora) continueranno ad esservi più che vicini.
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