De’ Mayo “apre” ai libri, un successo
Chieti – Quattro giorni intensi, dai contenuti altissimi con incontri, presentazioni, spettacoli, musica; il tutto all’insegna del libro nello scenario dell’anfiteatro del palazzo De’ Mayo a Chieti sono gli ingredienti che hanno decretato il successo di una manifestazione che ha visto sfilare ospiti come la poetessa Gabriella Sica, il politologo Marco Tarchi, il poeta Milo De Angelis, il saggista Arnaldo Colasanti, lo scrittore Aurelio Picca, il critico Paolo Lagazzi, lo storico Giordano Bruno Guerri. Si è parlato di filosofia, di politica, di poesia, di romanzi, d’arte, di storia. Giordano Bruno Guerri ha ricordato gli episodi più divertenti della sua lunga carriera, ricevendo il premio per la seguente motivazione: “Giordano Bruno Guerri è storico di grande spessore; con le sue analisi e i suoi studi ha scavato nelle pieghe del nostro passato svelandone aspetti spesso oscuri o rimossi, sempre distinguendosi per acume, obiettività e sempre lanciando uno sguardo ampio e comunque stringente, fino alla crudeltà, sguardo, il suo, scevro da ogni pregiudizio di sorta, per cui la sua bandiera è quella della libertà con cui ogni volta denuncia, sottolinea, rovescia, scopre, svelando piaghe, cicatrici, risvolti, delle nostre vicende: come un instancabile rivale dei luoghi comuni, ma anche come un cantore prometeico e omerico, come un Orfeo incapace di non voltarsi dietro alle proprie spalle, perché Guerri è anche un uomo d’avventura, che si spinge al di là, nell’oltre, laddove le orme gli parlano e lo sollecitano alla narrazione, alla passione del canto. Sì, perché la storia è infine letteratura, e dunque Giordano Bruno Guerri ne interpreta fino in fondo le implicazioni, da scrittore, quale penna vivacissima che ovunque reca la sua mano ferma, il calco, l’impronta del suo pensiero sottile come una lama”.
Gli scrittori hanno partecipato al tema della manifestazione, che quest’anno era: “Come salvare l’Italia” con interventi, relazioni, scritti di varia intensità; ne riportiamo una emblematica di Paolo Lagazzi: “Più che qualunque altro personaggio del cinema mi ha sempre affascinato Charlot. Charlot non saprebbe proprio cosa farsene dello spread, o, poiché in inglese to spread significa anche “spalmare” (to spread butter on a slice of bread), prenderebbe un vasetto di chissà cosa – magari colmo soltanto d’aria -, l’aprirebbe col suo stile straordinariamente compìto, poi ne spalmerebbe il contenuto impalpabile sulle sue memorabili scarpe trasformando questa specie di sgangherate barche di terraferma in mirabili, lucidissimi transatlantici in miniatura…
Ecco, penso che l’Italia dei nostri anni potrebbe cominciare a salvarsi se riuscisse, magari tornando a Totò (fratello mediterraneo di Charlot), a riscoprire in sé quello humour nutrito di fantasia che può ribaltare qualsiasi forma di povertà in ricchezza semplicemente spostando il nostro sguardo sul mondo. Quanti terreni, quanti edifici o boschi, quanti torrenti o muri, quante piazze, quanti tetti attendono in Italia che li rinnoviamo, ripuliamo, restauriamo e nutriamo con le gioiose carezze della nostra attenzione! Quanti uomini e donne dimenticati in fondo alle sacche della Storia (quella con la maiuscola) potrebbero aiutarci in questo compito se sapessimo ascoltarli abbandonando, almeno mezz’ora al giorno, il Diktat della fretta per il gusto dell’avventura lenta! Quanti di loro – penso in particolare ai cosiddetti barboni, piccoli Charlot senza più nemmeno un nome – sono forse gli ultimi, veri filosofi della gratuità, della vita aperta agli attimi, del tempo liberato dall’ansia, fluttuante nella bellezza del vuoto come certe albe incontenibili, come certe notti lunari! Quanta ricchezza è tra noi se sappiamo coglierla rinunciando a cercarla solo nella legge dei numeri, nella logica del quanto, nei dogmi del Mercato! L’Italia ha una tradizione, una riserva di sensi e di simboli, un retroterra di parole e di opere troppo ricco per meritare di essere impoverito, giorno per giorno, da chi non sa illimpidire i propri occhi, da chi crede solo alla feroce religione della Borsa, da chi pensa che produrre sempre più automobili sia il solo modo per raggiungere l’orizzonte.
Non sto tentando d’imbastire l’ennesima predica. Troppi hanno ripescato i sacrosanti ideali di un nuovo Umanesimo perché sia ancora facile agitare simili bandiere senza essere ipso facto tacciati di retorica. Ma forse la salvezza per l’Italia potrebbe cominciare proprio da un nuovo coraggio nell’usare la lingua, quel coraggio di chi sa che le parole possono essere armi e poesia, pugni e musica, baci e delitti. La grande civiltà del Rinascimento affonda in questa consapevolezza linguistica capace di misurarsi perfino con la menzogna senza tradire il bisogno della verità, come ci insegnano Machiavelli e Torquato Accetto se sappiamo leggerli fra le righe. Le macroscopiche bugie dei potenti di oggi non sono più il frutto di nessuno sguardo “totale” sul mondo, non hanno nulla a che fare, cioè, con quella capacità poetica, cosmica e mitica di indossare una maschera che in Occidente è nata con Hermes e Ulisse, e che arriva, passando attraverso il nostro Rinascimento, fino a Oscar Wilde. In questa grande tradizione “ermetica” della bugia, mentire è un’arte, una forma di narrazione, un gioco provocatorio, paradossale e illuminante, perfino una via iniziatica; nelle piatte menzogne di oggi, esibite senza alcun pudore né ironia, dire il falso è solo l’arrogante status symbol di chi può eludere le leggi da lui stesso proclamate perché il Potere lo protegge come un ottuso bulldog. In un breve, acutissimo pamphlet Gustavo Zagrebelsky ha di recente richiamato l’attenzione sulla degenerazione del linguaggio nella vita politica italiana. Mentre questa degenerazione ha continuato e continua a imperversare, molti italiani cercavano e cercano come possono le vie di parole nuove: scrivono versi sui loro taccuini, sui diari o i computer, inventano libri, magari tentano di creare nuovi haiku affidandoli a degli SMS… Non so, nessuno di noi sa a cosa porterà l’enorme bisogno dei giovani e dei meno giovani di ridare un po’ di fiato poetico alle nostre parole, troppo spesso ridotte in miseria e costrette a prostituirsi dalla Volontà di Potenza della Storia, ma mi sembra che il cammino verso ogni possibile, nuova idea di ricchezza passi necessariamente di qui: dalla forza con cui gli esseri umani di oggi e del futuro sapranno riconoscere che il mondo va reinventato senza tregua, anche attraverso un “ciao” a un amico distratto, anche nei gesti con cui, ogni mattina, spalmiamo il burro su una fetta di pane”.
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