Il sisma e la quinta ricostruzione aquilana
L’Aquila – (di Orlando Antonini *) – La stereotipa, condivisibile formula impostasi all’indomani del terremoto del 2009 – “ricostruire L’Aquila dov’era e com’era” – ha bisogno di precisazioni. Lo slogan intende respingere giustamente ogni velleità, vista adombrata nel progetto governativo di new towns stabili, di far abbandonare la città dai propri abitanti, per ricostruirla altrove. Come abbiamo visto più sopra, non è la prima volta, nella storia, che tale tentazione si presenta al verificarsi di eventi tellurici distruttivi come quello del 6 aprile 2009.
Scrivevamo nei nostri lavori del 1993 e 2004 che ad esempio nel terremoto del 1349 furono i cittadini a voler abbandonare il sito, e l’Aquila si sarebbe allora dissolta se non fosse intervenuto Lalle Camponeschi a convincere gli Aquilani a restare ed a ricostruirla dov’era. Viceversa col terremoto del 1703 erano stati piuttosto gli ambienti governativi napoletani e romani, almeno all’inizio, a mettersi nella prospettiva dell’abbandono della città, ma agli Aquilani, allora come oggi, non era venuta affatto un’idea del genere; sicché misero senz’altro mano alla borsa e alle braccia e per la quarta volta ricostruirono l’Aquila “dov’era” (31). Ma mai la ricostruirono “com’era”; e questo, in ognuno dei quattro casi precedenti: 1315, 1349, 1461 e 1703.
Se coi due sismi trecenteschi gli Aquilani ricostruirono la città grosso modo ‘com’era’ dal punto di vista stilistico, comunque accentuandone i caratteri gotici negli edifici sia civili sia religiosi, già nel post-terremoto del 1461 aggiornarono la facies medioevale della città distrutta con rilevanti innovazioni rinascimentali e cambi profondi nel concetto di dimora privata – da quello ‘aperto’ medioevale, ossia con porticati sulle strade, a quello ‘chiuso’, ossia con cortili interni a portici e loggie ma impenetrabili esternamente, del periodo successivo. Nel 1703, come ancor oggi si vede, addirittura cambiarono pressoché l’intera configurazione medioevale del capoluogo con la veste stilistica corrente in quel frangente storico, la ‘barocca’, sorprendendo non poco i criteri edilizi ed architettonici seguiti, come si vede all’insegna del grandioso, nell’edificare ex novo le chiese. La maggior parte degli edifici sacri furono rialzati, talora non di poco, ed alcuni caricati di alte volte in muratura, aggiungendosi anzi ardite cupole e progettandosene per altri, ad esempio la Cattedrale di San Massimo, quantunque poi non realizzate.
Con un tipo di ricostruzione del genere gli Aquilani del ‘700, oltre a rafforzare le vecchie e più volte ricucite strutture edilizie medioevali, sembra proprio abbiano inteso dare a sé stessi e al mondo il segno della loro caparbia volontà di ripresa, ad aperta sfida ai terremoti. Autentiche sfide, appunto, appaiono questi organismi aquilani settecenteschi per ampiezza, monumentalità e possanza muraria e di membrature, per articolazioni spaziali e plastiche fin’allora mai adottate. Difatti, assieme – si noti – a costruzioni del post-terremoto del 1461, all’epoca innovative, come la Beata Antonia e il Soccorso, anch’esse possenti in murature e volte, gli edifici sacri settecenteschi hanno sostanzialmente resistito, almeno nei contenitori murari, sia al terremoto del 1915 sia allo sconvolgimento tellurico del 2009.
Nella fattispecie odierna, pertanto e coerentemente, se l’Aquila dev’essere ricostruita “dov’era”, sul che non si discute, non dovrebbe esserlo ‘com’era’ in ogni caso. È vero che, non essendo ovviamente concepibile modificare in stile moderno il centro storico cancellando la presente facies barocca, come nel ’700 con quest’ultima si cancellò la facies medioevale, il ‘com’era’ s’imporrà di gran lunga sull’innovazione.
Questo vale di certo per l’architettura civile. Essa del resto, diversamente che nei paesi del territorio dei cui centri storici il terremoto ha fatto campi di macerie – Onna, Villa S.Angelo, S.Gregorio, Castelnuovo, … – all’Aquila, curiosamente, ebbe crolli per lo più nelle strutture interne, per implosione, mentre i fronti strada si mantennero in piedi, dando la sensazione che la città antica sia sostanzialmente indenne.
Magari si potrà profittare delle distruzioni sopravvenute per non ricostruire, nel centro storico e nelle immediatezze del pomerio murario antico, i palazzoni moderni caduti o da demolire, e, nei risarcimenti da operare, riaprire allo spazio urbano alcuni dei ricordati suggestivi porticati di facciate, dell’edilizia civile storica, che erano stati tamponati nel corso del tempo: ad esempio quello a due archi sul retro del complesso dei Gesuiti che dà sulla piazzetta dell’Annunziata e che fino al 1634 costituiva il cavalcavia che permetteva la prosecuzione di via Forcella fin su a piazza Palazzo; oppure l’altro, pure a due arcate della merceria De Paulis su via Cavour, che era stato chiuso dopo il 1703 con due portali barocchi ed è stato ‘risfondato’ dal terremoto del 6 aprile.
Nella ricostruzione dell’architettura religiosa, invece, ci si troverà di fronte a nodi non facili a sciogliere. Uno riguarda il reperimento dei fondi per la loro ricostruzione o restauro. L’altro tocca le spinose problematiche delle cangianti e non da tutti condivise teorie, carte e prassi del restauro architettonico.
Il reperimento dei fondi si va dimostrando un problema preoccupante. Nel ‘700, toccando agli stessi proprietari il carico finanziario, in merito non si registrarono problemi insormontabili, in quanto i committenti, trattandosi per lo più del ceto possidente nobile o delle allora ricche istituzioni ecclesiastiche, diocesane o religiose o congregazionali, a giudicare dai risultati è da dire che specialmente i ceti nobili profusero tutti i propri mezzi in una gara emulativa tra pari che mirava ad esprimere e simbolizzare il proprio prestigio e potere. Sicché la ricostruzione delle case e delle chiese procedette in pratica simultaneamente, anche a seconda delle facoltà e dell’intraprendenza dei committenti. Solo le chiese più importanti e i grandi palazzi patrizi registrarono un ritardo (da 2 a 5, 10, 20, 30 od anche 40 anni dal terremoto), per la pregevolezza che si intendeva caratterizzasse i nuovi manufatti.
In questa quinta ricostruzione dell’Aquila il panorama culturale e spirituale è cambiato radicalmente. L’attuale società pluralista opera una contrapposizione tra ricostruzione delle chiese e ricostruzione delle case, dando utilitaristicamente la precedenza alle seconde e tendendo a considerare le prime solo come luoghi di culto, non come monumenti. In tale ottica le chiese, in quanto tali, non sono da privilegiarsi per principio. Dei 45 progetti presentati dal governo italiano ai paesi presenti al G8 riunito all’Aquila nel luglio 2009, ben pochi fino ad ora furono adottati: forse appunto perché trattasi di chiese, in maggior parte, e i governi riterranno difficile far stanziare dai propri parlamenti, e giustificare presso i propri elettori, fondi ingenti che invece di andare a progetti sanitari o culturali o di riattivazione e promozione economica, vadano a edifici di culto, e di un certo culto in assoluta prevalenza. Alla fine, con le attualmente ben scarse risorse finanziarie della Chiesa, i cui beni furono in gran parte incamerati dalo Stato con le cosiddette leggi eversive nel secondo Ottocento, il peso maggiore della ricostruzione riposerà sullo Stato stesso e sulla sensibilità culturale di società, enti e associazioni pubbliche e/o private.
È dunque vivamente auspicabile che almeno italiani ed europei non si lascino anch’essi condizionare dall’ottica ideologica sopra delineata. Le chiese aquilane sono, certamente, dei luoghi di culto. Ma nel caso in specie esse, di fatto, lo si voglia o no, costituiscono la fetta essenziale e determinante dell’intero nostro patrimonio architettonico-artistico. Il quale a sua volta costituisce, e lo sarà ancor più in appresso, la provvidenziale ricchezza del nostro territorio, una ricchezza che ancora attende d’esser valorizzata e sfruttata a dovere turisticamente, quale nostra unica e vera industria, ecologicamente sicura, fonte di un indotto importante per l’occupazione, e dunque volano della vera ripresa dell’economia dell’intera regione. Svalutare ideologicamente la ricostruzione delle chiese perché luoghi di culto, per italiani ed europei costituirebbe una deplorevole attitudine autolesionista sia rispetto alle ineliminabili radici spirituali della nostra civiltà, sia rispetto allo stesso nostro patrimonio architettonico-artistico.
Quanto alle problematiche relative alle teorie del restauro architettonico, si prenda il caso di Santa Maria di Collemaggio. L’ultimo sisma l’ha abbattuta nella medesima zona crollata negli anteriori terremoti: la presbiteriale ed absidale, concretamente il transetto settecentesco e la prima campata dell’abside trecentesca, trascinando seco anche i tre archi trionfali e i due pilieri polistili alla fine delle arcate delle navi con ciò che tenevano sopra, nonché le ultime due archeggiature ogivali ad essi appoggiate. Archeggiature e pilieri questi, si noti, che erano stati rifatti nel ripristino morettiano del 1970-72 con accorgimenti in cemento armato allora supposti sicuri, ma che invece si son rivelati inutili, se non essi stessi causa del crollo.
Si pone dunque il problema se ricostruire ‘com’era’ tale sezione della basilica, modesta anzichenó in valori formali, che tra l’altro non armonizzava più col resto ‘ripristinato’ e recava ornati in stucco ormai irrecuperabili, con in più una calotta cupolare sotto padiglione ottagono rifatta nel 1960. O se, dopo ricostruiti ‘com’erano’ i predetti pilieri a fascio, gli arconi ogivali ad essi appoggiati e i tre archi trionfali, non convenga piuttosto rialzare un transetto in ‘neutro’ sotto tetto ligneo a vista come nelle navi, con l’originaria sagoma volumetrica a corpo continuo e sopraelevato che si vede sulla pianta 1622 dell’Antonelli e che noi abbiamo ricostruito virtualmente in Chiese dell’Aquila…, pg. 173.
Oppure il caso di Santa Giusta. Qui il terremoto del 2009, sconquassando specialmente la zona presbiteriale ed absidale, ha ‘stappato’ il finestrone rotondo, che in origine si apriva sulla testata sud del transetto ma era stato tamponato dopo il 1703, e rimesso in luce parte degli invasi trecenteschi della tribuna centrale e di quella settentrionale. Ci si chiede se non sarebbe da profittare del necessario ripristino del monumento per riaprire al completo detto finestrone tondo sulla testata sud – in tal caso si chiuderebbe il sottostante posticcio finestrone rettangolare e di conseguenza si rialzerebbe il corpo traverso del transetto forzatamente riposizionando, anche, la vela campanaria sul frontespizio destro della facciata com’era prima del ‘900 (v. il disegno del Leosini e sulla scia della ricostruzione virtuale da noi proposta nel volume CARSA del 2004 a pg. 133). Col predetto intervento si profitterebbe anche per liberare dai ringrossi murari le due segnalate tribune interne, onde farne riapparire le forme poligonali trecentesche con forse tuttora quella “artificiosa pittura di varia historia dipinta nel 1448”, di cui a fine ‘500 scrisse l’Alferi. Infine, auspicabilmente, si potrebbero riordinare le poligonali volumetrie absidali esterne trecentesche, sfigurate nel periodo barocco da orrende finestrature.
Anche a Santa Maria di Paganica, nella ricostruzione, si potrebbe profittare per liberare dai ringrossi murari il vano base della poderosa torre campanaria (quarta cappella a destra), per riscoprire quello che in origine doveva essere il braccio meridionale del transetto della chiesa medioevale, magari ancora con, sottostanti, i suoi affreschi trecenteschi.
A San Biagio di Amiterno, ancora, coi lavori si potrebbe profittare per isolare e rioffrire alla vista, sull’angolo nord-est dell’isolato, la parte inferiore dell’antica torre campanaria di spigolo, nonché, alla parte opposta, riportare a luce i robusti fusti ottagonali degli arconi trionfali dugenteschi.
Infine a Santa Maria di Roio ed a San Marciano negli interventi restaurativi si potrebbe considerare l’opportunità, nel primo caso, di ripristinare fino ad un’altezza visibile l’attualmente decurtata torre campanaria, mortificata nel ‘700 come si vede, riapplicandovi il suo documentato fastigio a cipolla, unico del suo genere nel nostro territorio, al contempo risistemando decorosamente i vani ivi addossati; inoltre, si potrebbe profittare per risarcire alla sua vera altezza la terminazione piana della facciata, anch’essa mortificata nel ‘700 col maldestro intervento di comodo che si nota. Per San Marciano, è auspicabile la sistemazione a rovina visitabile dell’ex zona presbiteriale ed absidale dugentesca, i cui resti smozzicati e in abbandono sorgono tuttora nel giardino retrostante l’aula attuale.
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È ancora da sottolineare che la pur pregevole ricostruzione settecentesca, probabilmente per scarsezza di fondi, non fece in tempo a riprodurre l’articolata caratteristica sagoma abitativa ad innumeri campanili a cuspide e il fusto merlato della Torre Civica che prima del terremoto doveva, con la grande cupola bernardiniana, bellamente caratterizzare lo skyline cittadino entro le mura, mentre, non riproducendo quelle significative emergenze, lo appiattì in massima parte.
Anche qui, pertanto, ci si chiede se, dovendo rimettere mano alle torri dugentesche di San Pietro di Coppito, di Santa Maria di Paganica, della citata Santa Maria di Roio, e di San Silvestro, a quella pure dugentesca di San Quinziano che doveva essere una delle torri della cinta muraria del 1272-75, nonché a quella quattrocentesca di San Bernardino, non sia il caso di decidere la riapplicazione delle originarie cuspidi – di certo lo si farà, si suppone, alla cinquecentesca torre campanaria di Fossa, la cui irta cuspide, scampata al crollo nel terremoto del 1703, è invece caduta, purtroppo, in questo del 2009.
Come pure, dovendo procedere alla ricostruzione di alcuni transetti come quello della chiesa diocesana, ci si domanda se non sia giunta l’occasione anche per portare a compimento la Cattedrale di San Massimo con l’elevazione finalmente, all’intersezione appunto del ricostruito transetto e quale sfida al terremoto, simbolo di resurrezione per tutta la città, della progettata ma sempre rinviata cupola, il cui disegno si vede in una stampa del 1887.
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Occorre per ultimo rilevare che la ricostruzione settecentesca in fondo non attinse la propria compiutezza. Se per l’architettura civile essa giunse a realizzarsi sia per gli interni sia per la definizione architettonica ed estetica degli esterni, per la religiosa riguardò essenzialmente gli interni e le facciate, mentre fianchi ed absidi rimasero come in cantiere, nel loro dimesso, nudo tessuto murario a pietrame informe misto a laterizi. Si trattò non di caratteristica di scuola, come qualcuno asserisce, bensì di una situazione di provvisorietà in attesa del consueto, coerente perfezionamento anche del disegno e rivestimento esterno. Le strutture che si poterono terminare, le cupole di Sant’Agostino e del Suffragio, che si offrono delineate nelle loro forme architettoniche esteriori, definite da elaborati contrafforti e cornicioni, e rifinite in riquadrature ed intonaci rispetto alle volumetrie sottostanti – in Sant’Agostino con le incorniciature sottogronda pronte per la stuccatura – lo provano a sufficienza. A tale fase costruttiva avrebbe dovuto seguire quella conclusiva di rifinitura plastica. Quest’ultima non si verificò perchè, incappate le incompiute ricostruzioni settecentesche nella stasi edilizia ottocentesca successiva, la provvisorietà, come spesso succede, divenne definitiva, e così dové apparire agli occhi delle generazioni seguenti.
Non sarebbe quindi opportuno, ci si chiede, in questa ennesima ricostruzione della città e delle sue chiese, procedere altresì ad applicare i mai eseguiti intonaci e riquadrature in stucco alle superfici murarie esterne degli svariati edifici sacri sei-settecenteschi che ne restarono privi? Ci si riferisce in particolare alla Cattedrale, a Santa Maria di Paganica, a San Paolo di Barete (per il quale, tra l’altro, era di certo prevista progettualmente una cupola estradossata come degna inaugurazione di Via Roma), a Santa Maria di Roio, San Marciano, San Biagio di Amiterno, a Sant’Agostino, al Gesù.
Alla nostra futura, splendida Aquila, immensi affettuosi voti.
* Mons. Orlando Antonini, 64 anni, è nato a Villa Sant’Angelo (L’Aquila). Ordinato sacerdote nel 1968, è stato per quasi un decennio parroco di Picenze. Formazione diplomatica presso la Pontificia Accademia, ha fatto importanti esperienze come Segretario in diverse Nunziature apostoliche: Bangladesh, Madagascar, Siria, Olanda, Francia e Cile. Nel 1999 l’ordinazione episcopale, la nomina a Vescovo di Formia e l’affidamento della Nunziatura apostolica in Zambia e Malawi, che ha retto fino al 2005. Attualmente Nunzio apostolico in Paraguay, lo scorso 8 agosto papa Benedetto XVI gli ha affidato la Nunziatura apostolica in Serbia, che presto andrà a ricoprire. Scrittore, musicista e storico, mons. Antonini è uno tra i più insigni studiosi di architetture religiose e urbane in Abruzzo. Di capitale interesse scientifico le sue pubblicazioni, come “L’architettura religiosa aquilana” volumi 1 e 2, “Manoscritti d’interesse celestiniano in Francia”, “Chiese dell’Aquila”, “Recupero e riqualificazione dei centri storici del Comitatus Aquilanus” e “Villa Sant’Angelo e dintorni”. Le sue pubblicazioni sull’architettura religiosa sono punto di riferimento imprescindibile per studiosi e storici dell’urbanesimo abruzzese. (Annotazione biografica a cura di Goffredo Palmerini)
(Nella foto: Mons. Orlando Antonini durante una visita ai terremotati in aprile)
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