Cinema perduto e ritrovato a Venezia e altrove, con pronostici


(di Carlo Di Stanislao) – Sta per chiudersi una fra le più belle edizioni della Mostra Internazionale del Cinema e domani, assegnati i premi, tutto sfumerà, progressivamente, lascandoci con occhi sognanti ad attendere il prossimo anno.
Massacrata la Comencini e definito ripetitivo Redford, oggi è soprattutto il giorno, nell’ambito delle proiezioni restaurate, di Fanny e Alexander (1982), capolavoro di Bergman di cui ricorre anche il trentennale della prima.
Nella lunga nota di prefazioni al film, Bergaman scrisse: “Voglio finalmente rappresentare quella gioia che io, nonostante tutto, porto dentro di me, e a cui tanto di rado e tanto debolmente do vita nel mio lavoro. Descrivere l’energia, la vitalità, la bontà. Non sarebbe poi così male, per una volta”.
Fanny e Alexander, in effetti, è un lungo e articolato film, ricco di contenuti e di sfumature, da cui, in ultima analisi, emerge una sorta di dichiarazione d’amore per la vita e per l’arte, per le forme mediatico-mimetiche con cui essa – la vita – viene più spesso rappresentata, cioè teatro e cinema.
Prodotto inizialmente per la televisione, , diviso in cinque puntate per un totale (conservato nella Cineteca de L’Aquila) di 312 minuti, fu poi ridotto per il cinema a 197 minuti, definiti dal regista stesso un mero ripiego rispetto al’impianto originale.
Voglio qui plaudire alla iniziativa di Berbera: quella delle retrospettive che, di solito, sono schiacciate dalle novità in concorso e fuori.
Nel caso di Venezia 2012, invece, la proiezione di copie perfettamente restaurate, sconosciute o perdute, assume una funzione culturale più ampia e certamente di maggior respiro.
Nella scia della sua attività di direttore del Museo del Cinema di Torino, Barbera ha messo insieme una significativa antologia di film, tra lungometraggi e documentari, appartenenti alla collezione dell’Archivio storico della Biennale, l’Asac, di cui da sempre studiosi e operatori chiedono una maggior apertura e fruizione.
In effetti, i film della Mostra depositati presso l’Asac rappresentano un patrimonio prezioso: sono spesso copie uniche di film perduti o di versioni poi riviste per la distribuzione. Nell’assaggio che la Mostra ha proposto al Lido ci sono stati film celeberrimi e altri noti solo agli studiosi: tra i primi sicuramente vanno annoverati il capolavoro di Billy Wilder “Viale del Tramonto” (1950), con la celebre vicenda (narrata per la prima volta da un …morto) della follia dell’allucinata star del muto Gloria Swanson; o “Gli uomini preferiscono le bionde” di Howard Hawks (1953) con lo strepitoso duetto tra Marylin Monroe e Jane Russell; o, appunto, “Fanny e Alexander” che Ingmar Bergman presentò a Venezia nel 1982.
E ancora, molto cinema italiano: da “Porcile” di Pasolini, al Lido tra mille polemiche negli anni della contestazione (1969) al garibaldino “Camicie rosse” di Alessandini (1952), da “Il caso Mattei” (1972) del Leone alla carriera Francesco Rosi (che ne vinse uno nel ’63 per “Mani sulla città”) a “Stromboli terra di Dio” di Rossellini (1950) o “Indagine su cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri (1970).
A questi classici restaurati – compreso l’ultimo arrivato, quell’opera tanto grandiosa quanto imperfetta come “I cancelli del cielo” di Michael Cimino (1980) – si ne aggiungono alcune davvero uniche e considerate perdute.
Tra esse il sovietico “L’ultima notte” di Julij Jakovlevi Rajzman (1936), che racconta i giorni del rivoluzione d’Ottobre attraverso le vicende intrecciate di due famiglie, una operaia e una borghese, nel giro di una sola notte, l’ultima del vecchio mondo e la prima del nuovo; o “Dieu a besoin des hommes” di Jean Delannoy (1950), film di intensa spiritualità, apprezzato da laici e credenti, con cui Delannoy ottenne il riconoscimento internazionale, raccontando la vita degli abitanti della selvaggia isoletta di Seil, in Bretagna, da lungo tempo invisibile.
E, ancora, “Il brigante” di Renato Castellani (1961), qui nell’unica copia della versione lunga tagliata dopo Venezia dal produttore. Tratto da un romanzo di Giuseppe Berto, è la storia di un contadino calabrese che occupa latifondi, ingiustamente accusato di omicidio. Ma c’è anche il film di un veneziano: è “Pagine chiuse” di Gianni Da Campo (1968). Film ingiustamente dimenticato, che incarna la vena intima e pacata della contestazione giovanile di quegli anni, segnò il felice esordio cinematografico del regista e scrittore allora venticinquenne, che in seguito girò “La ragazza di passaggio” (1970) e “Il sapore del grano” (1986). Presentato alla Mostra della contestazione, ottenne poi il premio della Giuria al festival di Cannes dell’anno successivo e numerosi altri riconoscimenti. Tra i documentari da segnalare almeno quello del regista cileno Raul Ruiz, da poco scomparso: “Adesso ti chiameremo fratello” (1971), fondamentale contributo all’illuminato programma di Salvador Allende, unica copia al mondo, realizzata nell’ambito dell’Unidad Popolar, l’unione dei partiti di centro-sinistra che governò il paese dal 1970 al tragico golpe dell’11 settembre del 1973.
Ci avesse interpellato (magari), avremmo potuto prestare (anche gratis) a Barbera, alcune copie uniche o rare della Cineteca la cui attività di restauro (la terza per importanza e livello tecnico in Italia) e conservazione, è a cura dell’Istituto Lanterna Magica de L’Aquila.
Ad esempio “uomini e lupi” di Giuseppe De Santis, girato nel 1957 nel Parco Nazionale D’Abruzzo, forse il primo vero western della nostra cinematografia e, ancora, “Nostra Signora dei Turchi”, lungometraggio del 1968, diretto e interpretato da Carmelo Bene, con un montaggio che fu inaspettatamente completato lo con lo sfregio metodico e chirurgico perpetrato da Carmelo Bene e i suoi amici Masini e Contini e i tecnici in camice bianco, ai danni della neonata pellicola, sicché la pellicola (di cui abbiamo l’unica copia) fu calpestata, bruciacchiata, tagliuzzata, fatta a pezzi, sotto gli occhi allibiti e increduli del nobile napoletano Franco Jasiello della Microstampa, suo finanziatore, che, a quanto riferisce Carmelo Bene nella sua Autobiografia, rischiò quasi un infarto.
E, ancora, “Il generale della’armata morta”, unica regia di Luciano Tovoli, film girato interamente a L’Aquila e dintorni, con Marcello Mastroianni, Anouk Aimèe e Michel Piccoli, tratto dal capolavoro di i Ismail Kadare, grande successo internazionale nel 1963, ritenuta la migliore opera dello scrittore austriaco e tradotto in 36 lingue.
Ma anche “il brigante di tacca di lupo” di Germi, del 1952; “Sotto il sole di Roma” (1948) di Luciano Emmer, con sceneggiatura (magnifica) di Franco Brusati; “Seduto alla sua destra” di Valerio Zurlini, film del 1968, che doveva appartenere al “collettivo” Amore e rabbia, insieme agli episodi di Marco Bellocchio, Bernardo Bertolucci, Jean-Luc Godard, Carlo Lizzani e Pier Paolo Pasolini.
Né si lesinano buoni (e introvabili) titoli stranieri in eccellenti condizioni di conservazione o molto bel restaurati: la filmografia “inglese di Hitchcock (da “Patricia” a “La signora scompare”) ai cortometraggi di Orson Wells (“The Hearts of Age”, “The Fountain of Youth”, “The deep”, “London”, “Moby Dick”) a pellicole rare di Jean Pierre Melville, come “Leon Morin prete” (1961), pervaso da una riflessione acuta ed irrisolta su laicismo e religione o “Frank Costello faccia d’angelo” (1967), considerato il suo capolavoro.
Speriamo che, il prossimo anno, l’attento Barbera ci tenga presente.
Intanto profittiamo per accennare che, ancora oggi, il restauro cinematografico resta un territorio dai confini incerti, frequentato da tutti e da nessuno, ancora privo di regole codificate, di metodologie condivise, di luoghi di formazione in grado di creare nuove figure capaci di agire in un ambito professionale e culturale che vive un’epoca di profonde trasformazioni.
Il cinema ha certamente caratteristiche proprie, ma non è la prima arte seriale che necessita di interventi di restauro, ma c’è da ritenere che, nei prossimi decenni, si faccia strada anche nel campo del restauro cinematografico un atteggiamento scientifico rigoroso e condiviso. L’impetuosa diffusione della tecnologia digitale, tra i molti rischi che può indubbiamente creare nelle sue applicazioni alla filiera del restauro cinematografico, comporterà anche un innegabile vantaggio, quello di condurre i migliori laboratori al mondo a definire degli standard che, con il tempo, potranno essere assunti dalle cineteche come protocolli condivisi.
Entro i confini tecnico-applicativi de la Cineteca de L’Aquila, la filosofia di indirizzo dell’Istituto Lanterrna Magica, si basa sulle idee ancora attualissime di Luciano Berriatúa, applicate sui film diretti da Friedrich Wilhelm Murnau, che hanno consentito di poter vedere in copie complete e filologicamente corrette i film del grande maestro tedesco.
Inoltre, poiché è l’autenticità che indagata e conservata e poiché, nel campo del cinema esistono per ogni film diverse versioni e/o edizioni, spesso contraddittorie tra loro ma tutte legittime e con una loro storia interna; l’opera di restauro-conservazione è anche ricerca filologica e di autenticità, nella consapevolezza che ogni singolo film pone una serie di problematiche specifiche, più articolate di quelle proposte inizialmente (versione ritrovata; controtipi; lavander, versione restaurata; versione reintepretata), legate all’esistenza, all’epoca e alla sopravvivenza oggi di più versioni e/o edizioni.
Inoltre, con l’aiuto ed il contributo della Direzione Cinema, da sempre accanto a noi, speriamo di ottenere i fondi per attivare un recupero-conservazione mediante il film-scan: una macchina adibita all’acquisizione digitale delle immagini e che costituisce l’evoluzione tecnologica del tele cinema, consentendo di eliminare graffi ed irregolarità sia nelle immagini che nella pista sonora. Se il telecinema acquisisce un film in tempo reale ed elabora un’immagine elettronica, lo scanner invece genera dati con un tempo di acquisizione ed elaborazione che dipende da diversi fattori tra cui formato della sorgente, risoluzione dell’immagine, tecnologia utilizzata.
L’operazione successiva alla scansione del film è il restauro digitale vero e proprio. Questa fase, così come la sua rispettiva analogica, ovvero la riparazione della pellicola, può durare anche parecchi mesi e richiede perizia ed esperienza da parte degli operatori.
I programmi utilizzati durante il restauro digitale – per correggere i tipici difetti della pellicola quali, per es., instabilità, sporco, spuntinature, deformazioni, instabilità della luminosità, granulosità – sono sistemi software-based che funzionano in modalità manuale, automatica e interattiva, sulla base di sofisticati algoritmi in grado di individuare e rimuovere gli elementi anomali dell’immagine impossibili da correggere con i tradizionali metodi fotochimici.
Speriamo presto di essere messi in condizioni tecniche (quelle professionali già esistono e sono certificate), di operare in questa direzione per accostarci agli straordinari risultato di quello che è ad oggi considerato il gold-standard: il restauro de “le amiche”, film di Antonioni del 1955, magistralmente recuperato dal negativo originale camera depositato dalla casa di produzione Titanus, operata dalla Cineteca di Bologna.
Torniamo a noi, a Venezia che si chiude, alla melanconia e al vuoto che ci lascia dentro, un po’ come in due film che amo: il molto raffinati “Dimenticare Venezia” di Franco Brusati ed il più hollywwodiano (con eccezioni) “L’ultimo spettacolo” di Peter Bogdanovich o, ancora “Ballando, ballando” di Ettore Scola.
Divertiamo a fare pronostici e vediamo quanti ne azzecchiamo. Io darei il Leone D’Oro al coraggioso “Bella addormentata” di Bellocchio ma, considerando che siamo sempre esterofili, come seconda scelta a “Pietà” di Kim Ki-duk (così non si dirà che l’unico a occuparsi di cinema orientale è Muller) o anche “The master” di Paul Thomas Anderson.
Il Leone D’Argento per la regia o al sempre irriverente con sorprese Harmony Korine di “Spring Breakers” o alla coppia Peter Brosens, Jessica Woodwort (che tornano alla mostra dopo il Leone del Futuro del 2006) per “La cinquième saison”, film in cui è scelta (come dal 104enne De Oliveira) la staticità come forma espressiva, ma costruendo meravigliosi tableaux vivants, dove il movimento avviene quasi esclusivamente all’interno dell’inquadratura, traducendo in immagine il senso di un tempo giunto alla fine del suo perenne viaggio (speriamo non sia in alcun modo metafora che ci riguardi).
Se non il Leone D’Oro, almeno quello Speciale della Giuria va al film di Bellocchio, con competitor in “Après Mai” di Olivier Assayas, che ci ricorda come i ricordi possono essere pericolosi, ed è facile perdersi nella memoria o accorciare fatalmente quell’indispensabile distanza capace di salvaguardare la purezza di un’idea.
A Joaquin Phoenix (per “The Master”) o James Franco (per “Spring Breakers”) dovrebbe andare la Coppa Volti per il protagonista maschile; mentre quella per la migliore attrice o a Franziska Petri per “Izmena” di Kirill Serebrennikov (uno film che sembra a luci rosse, ma che, invece, è un viaggio interiore dentro ciascuno di noi); o a Cho Min-soo, protagonista del già citato “Pietà: un teorema perfetto realizzato dal già Leone D’Argento con “Ferro 3”, che rapisce perché non propone risposte preconfezionate, ma le elabora con lo spettatore man mano che la storia si dipana sullo schermo come un sillogismo ineluttabile.
Darei il Premio Mastroianni a Hadas Yaron, per Lemale Et Ha’Chalal (Fill the Void), ma mi piacerebbe che ha vincerlo fosse Giulia Valentini per il bistrattato (ed invece magnifico) “Giorno speciale” di Francesca Comencini. Ma, va detto per par conditio, che il premio potrebbe anche andare al maschietto Brenno Placido, Orlando furioso per un minuto, con un breve passaggio che lascia un segno indelebile, in “Bella addormentata” e poi così ci teniamo buoni sia il padre Michele, che la sorella Violante.
L’Osella per la migliore sceneggiatura (non se abbiano a male Bellocchio e soci, il cui prodotto ho già posto fra i grandi Leoni), lo assegnerei a Massimo Gaudioso e Daniele Ciprì, per “È stato il figlio” e quello per il miglior contributo tecnico (fotografia) o a Emmanuel Lubezki per “To the Wonder” o a Hans Bruch Jr., per “La cinquième saison”.
Il Queer Lion Award, anche conosciuto come Leone Queer (o, impropriamente, Leone gay), nella sua quinta edizione, se lo merita tutto, per il coraggio mostrato nel portare in concorso la parodia di se stesso negli anni ottanta, “Passion” di Brian Di Palma, che, oltre tutto, ci ha di nuovo stupito (il cinema è soprattutto stupore) per la capacità di trasformare le immagini pixelate di video i-Phone e telecamere a circuito chiuso, in imax ad alta definizione, come e meglio del grande Cristopher Noolan.
Infine se un film mi resterà dentro (e dentro anche negli occhi e nel cervello), è certamente “Paradise Flaith”, tratto dal documentario Jesus, Du weisst dello stesso regista Ulrich Seidl, occasione, non sciupata, per esplorare (il cinema è anche esplorazione) la patologica e frustante dedizione religiosa, che raggiunge, quando raggiunge livelli preoccupanti e morbosi.


08 Settembre 2012

Categoria : Cultura
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