“Vola L’Aquila” intervista Coccopalmerio
L’Aquila – Il porporato milanese aprirà il prossimo 28 agosto la Porta Santa di Collemaggio . Di seguito riportiamo l’intervista che il cardinale Francesco Coccopalmerio ha rilasciato al quindicinale diocesano ‘Vola L’Aquila’, don Claudio Tracanna, in occasione della 718^ Perdonanza Celestiniana. L’intervista è presente anche sul prossimo numero di ‘Vola L’Aquila’.
Eminenza, il 28 agosto Lei sarà all’Aquila dove sono molto evidenti le ferite del terremoto. Cosa si sente di dire agli Aquilani che incontrerà?
Vengo all’Aquila in pellegrinaggio, sulla scia e nel ricordo del Cardinale Vincenzo Fagiolo, mio predecessore alla Presidenza del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi e Arcivescovo Metropolita di Chieti. E vengo all’Aquila ricordando agli Aquilani e agli Abruzzesi che le mie origini sono abruzzesi, perché mio padre Alberto si trasferì in Lombardia da Scontrone e da Pescocostanzo, allora e oggi nella diocesi di Valva e Sulmona e dove i Coccopalmerio sono presenti da tempo immemorabile. Con questo retaggio si può capire come, fin da quei terribili giorni del terremoto aquilano, io mi sia sentito vicino alla Terra d’Abruzzo così violentemente colpita. Con questa partecipazione di sentimenti e di memorie antiche invito gli Aquilani a essere vigili nella ricostruzione della loro città e fedeli ai Lari e Penati della loro storia e della nostra storia d’Abruzzo. Vigilare vuol dire, soprattutto, partecipare, e quindi lottare, per non essere esclusi dalla ricostruzione che non può né deve passare sulla testa degli Aquilani.
La figura di Celestino V è passata alla storia per la sua rinuncia alla tiara, ma sia Paolo VI che Benedetto XVI ne hanno esaltato la santità. Cosa può dire questo Santo alla Chiesa e al mondo d’oggi?
Bisogna innanzitutto far chiarezza perché la dottrina e la tradizione popolare non sempre ci hanno aiutato e ci aiutano a comprendere bene questa grande figura di Papa e di Santo.
Precisiamo innanzitutto che a essere elevato agli onori degli altari è stato Pietro del Morrone e non Papa Celestino V. La bolla di canonizzazione emessa con breve apostolico in Avignone il 13 maggio 1305 da Clemente V riconosceva le virtù del monaco del Morrone fermandosi di fronte all’attività del pontefice. Quindi, il 19 maggio, dies natalis del nuovo Santo, celebra Pietro del Morrone e non direttamente Celestino V. La canonizzazione del monaco del Morrone riconosceva in Pietro Angelerio l’ansia di rinnovamento per le sorti delle istituzioni monacali del suo tempo e veniva a significare che la crisi di tali istituzioni aveva bisogno di un rinnovamento dello spirito. L’assenza di uno spirito rinnovato era stato il motivo che aveva lacerato la Chiesa negli ultimi tre secoli che precedettero l’elevazione al soglio pontificio di Celestino V. Ecco, Pietro del Morrone ci insegna che bisogna rinnovarsi nello spirito continuamente e che questo rinnovamento deve essere il motivo dominante dell’essere cristiano, ieri come oggi, sempre. Altro è il problema dell’abdicazione…
… da esperto di diritto quale è Lei, come giudica la scelta del santo pontefice molisano?
Grazie della domanda, perché mi permette di spiegare la santità dell’uomo e il dramma del papa di fronte ai mille problemi del suo tempo. L’elevazione di Pietro del Morrone non solo gli riconobbe i numerosi miracoli da lui compiuti, ma anche la bontà di quanto egli predicava (e concretizzava nell’opera diuturna, personale e delle migliaia di confratelli che si erano uniti a lui in tutta Europa nella Congregazione, da lui fondata, dei Celestini) circa la sfiducia verso le declinanti istituzioni ecclesiastiche del suo tempo che non sempre avevano perseguito l’ascesi monastica che implicava la rinuncia a ogni possesso. Di contro, non c’è dubbio che l’eremita del Morrone nelle vesti di papa Celestino V si mostri del tutto impari al suo sforzo. Di qui la sua abdicazione. Nel momento in cui non si cononizzava Celestino V, da un lato, si legittimava il gesto del suo rifiuto al soglio pontificio e, dall’altra, e paradossalmente, si riconosceva la continuità della successione apostolica. E non si poteva fare altrimenti, perché la bolla De renuntiatione di Bonifacio VIII stava a dimostrare la legittimità di abdicare di un papa (statuit et decrevit Romanum Pontificem posse libere resignare) e, dall’altra, che elevare agli onori degli altari Celestino V sarebbe stata la dimostrazione che si condannava apertamente l’operato di Bonifacio VIII e si faceva venir meno, di conseguenza, la continuità apostolica sul soglio di Pietro.
Il ruolo ricoperto da Lei, quello cioè di Presidente del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, in qualche modo (e Lei lo ha ampiamente dimostrato rispondendo alla domanda precedente) ci ricorda quanto sia importante l’attività giuridica per mille problemi che riguardano la Chiesa, anche nel caso estremo di un eventuale rinunzia del Papa. Quale ruolo svolge il diritto per la vita della Chiesa e, in generale, per la santificazione dell’uomo d’oggi?
Bella domanda, e domanda delicata. Come dimostra il caso di Pietro del Morrone, la Chiesa è il Corpo Mistico di Cristo ed è la istituzione giuridica¸ formata da uomini e da donne che vivono la realtà della storia in attesa della Resurrezione. È importante quest’ultimo dato: punto nodale della società storica della Chiesa è quello di preparare i suoi membri al momento della Resurrezione. Per spiegarLe meglio, Le faccio un esempio che a me sembra illuminante e che divide il cristiano da chi non ha la fede della Resurrezione: quando un cristiano muore la nostra fede ci insegna che “viene chiamato dal Padre Celeste”; i non credenti dicono “non è più”. Invece il cristiano è, e come!, e continua a esserlo anche dopo che ha lasciato questa terra. In questo scenario qual è il compito del diritto? Quello di indicare ai cristiani le regole che la Chiesa, cioè il popolo di Dio, si è data per indirizzare il singolo soggetto ai principi che sono stati personalmente assunti con il Battesimo, e poi incrementati con gli altri sacramenti. Lo scopo del diritto della Chiesa è quello della salus animarum, la salvezza cioè delle anime, la salvezza eterna delle persone.
I non credenti potranno anche sorridere di questo fatto, ma poi essi stessi si scontrano con la realtà viva delle cose e si fermano, di fronte ai tre principi dell’eredità stoica (la filosofia greca nata a Tarso, patria di San Paolo, l’apostolo delle Genti), fede, speranza e carità, alla sola fede ( nell’uomo) e alla sola carità (verso chi appartiene al gruppo che gestisce il potere), glissando completamente il principio della speranza, e creando così una società di disperati quando insegnano che dopo la morte del corpo non c’è altro che il nulla. La Chiesa invece, forte dell’insegnamento di Gesù di Nazareth e di Paolo di Tarso ci insegna che lo scopo della nostra vita è la Risurrezione (Speranza) che si raggiunge attraverso la Fede (in Cristo, a partire dagli insegnamenti del Discorso della Montagna) e le opere della Carità (che è amore e agápe). Il diritto della Chiesa indirizza ai singoli credenti le regole da seguire per realizzare il progetto che Cristo ci ha lasciato, arricchito dalla Tradizione e dagli insegnamenti del Magistero.
Spesso Lei è intervenuto sul tema dei matrimoni. All’Aquila sembra che il terremoto abbia purtroppo favorito l’aumento dei divorzi. Cosa si sente di dire a proposito?
Innanzitutto un forte rammarico nel sentire questa notizia. Veda, io appartengo a una generazione la quale mi ha insegnato che di fronte ai momenti tristi della vita e alle grandi prove della storia (come è stato il terremoto aquilano) ci si compatta anzicchè disintegrarsi. Forse occorrerà un forte esame di coscienza anche da parte dell’episcopato, che ha retto e regge questa parte di popolo di Dio, sul perché e come si sia giunti a questo risultato. Per ora bisogna prenderne atto e lavorare su quanto c’è. E se si deve lavorare sulla disgregazione, bisogna rimboccarsi le maniche e dare concretezza storica agli insegnamenti della Chiesa. Ho già detto, nelle due occasioni che mi hanno portato ad inaugurare l’anno giudiziario del Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano di Chieti, che, se il Matrimonio è un atto congiunto dei due nubendi, c’è comunque un terzo soggetto presente nella decisione di questi ultimi, ed è la Chiesa, rappresentata dal Celebrante che si fa forte di questa presenza, ricordando il grande mistero (come Paolo chiama il matrimonio) e la capacità, poi, di intervenire nel giudicare valido o invalido (cioè in armonia o meno con gli insegnamenti della Chiesa) l’atto posto in essere. E ho già ricordato che il matrimonio, cellula vitale della società ecclesiale e della società civile, è il risultato dell’incontro di comprensioni e di educazioni complementari che devono dar vita a un nuovo frutto sociale e giuridico che è la famiglia. La Chiesa e i presbiteri hanno la grande responsabilità di guidare i nubendi a questo atto, ma soprattutto i genitori dei futuri sposi: la nuova famiglia che sorgerà è il risultato di quanto appreso nelle precedenti due famiglie da cui i futuri sposi provengono: sono le generazioni precedenti che danno vita alle generazioni future. E le famiglie abruzzesi, tra le quali mi onoro di collocare la mia, sono sempre state e sono ancora oggi, ricche di valori umani e cristiani.
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