Moniti per ricordare
(di Carlo Di Stanislao) – Dal 1° luglio, in ricordo delle 262 vittime, fra cui 136 italiani, la miniera di carbone di Bois du Cazier a Marcinelle, Belgio, è patrimonio della umanità dell’Unesco.
La tragedia di Marcinelle, avvenuta l’8 agosto di 56 anni fa, è diventata nel tempo un simbolo importante non solo della storia dell’emigrazione italiana, ma anche perché è stata la sciagura più grave dopo quella avvenuta nella miniera di Monongah, in West Virginia, dove, nel 1907, si verificò il più grave disastro minerario della storia americana, durante il quale morì un terzo della popolazione del paesino.
In entrambi i casi le tragedie per l’assoluta assenza di norme di sicurezza, cosa che, ancora oggi, accade puntualmente in Cina, dove il business è il più lucrativo del Paese, se si pensa che gli uomini più ricchi sono proprio i proprietari di miniere che, con i soldi, arrivano al potere, corrompono gli ufficiali di Partito per far riaprire miniere dichiarate illegali e pagano i lavoratori sopravvissuti ad un incidente perché non parlino con le autorità.
E’ stato scritto che lavorare in una miniera di carbone cinese è probabilmente oggi uno dei lavori più pericolosi al mondo: si calcola che vi muoiano 13 persone al giorno, e il numero reale potrebbe in realtà essere molto più alto visto che molti incidenti vengono coperti.
Nel 2008 ci sono state 3.125 vittime: pensare che si tratta soltanto di una piccola frazione di quel grande esercito di manodopera a basso costo formato da centinaia di migliaia di persone che ogni anno si sposta dalle campagne alle città in cerca di un migliore tenore di vita.
Certo, il governo cinese , non è insensibile alle critiche da parte dei Paesi occidentali e delle Organizzazioni internazionali come Greenpeace: la Riforma dell’Industria mineraria, varata per correggerne i tanti difetti, ha diversi obiettivi. Per abbassare la quantità di incidenti e migliorare l’efficienza nell’utilizzo delle risorse minerarie, è stato reso illegale l’utilizzo di una stessa miniera da parte di diverse compagnie. Inoltre, il governo ha imposto la chiusura delle miniere che estraggono meno di 300.000 tonnellate di carbone all’anno.
Nel 2008 sono state chiuse 1.054 miniere illegali: secondo statistiche governative, l’80% delle 16.000 miniere cinesi è illegale. Questo fatto è attribuibile principalmente alla facile corruzione degli ufficiali adibiti al controllo, grazie alla grande quantità di denaro mossa da questo tipo di industria; il vasto territorio, inoltre, è difficile da controllare in modo capillare: recentemente, è stata scoperta una miniera illegale che era camuffata da porcile.
Enorme, poi, per la totale inadeguatezza degli impianti, il disastro ambientale. Per rendersi conto dell’effetto di quest’industria sull’atmosfera, basta guardare la pellicola “Pozzo cieco” di Li Yang o le spettrali fotografie di Lu Guang.
Il New York Times ha riportato che una nuvola di sostanze tossiche ha raggiunto Seoul dalla Cina nell’aprile 2006, conseguentemente attraversando il Pacifico e toccando la costa statunitense: era visibile persino dallo spazio.
Ricercatori degli Stati costieri di California, Oregon e Washington hanno notato che una patina grigia composta da una miscela di prodotti derivati dalla combustione del carbone sporcava i filtri e copriva i rilevatori in alta quota. Gli effetti di questa nuvola tossica, tuttavia, non sono stati avvertiti nelle città a livello del mare come San Francisco e Los Angeles.
L’anidride solforosa, uno dei prodotti della combustione del carbone, è causa delle piogge acide che bagnano oggi il 30% della Cina: nel 2004, ne sono state rilasciate dall’industria legata al carbone più di 22 milioni di tonnellate, più del doppio della quota degli Stati Uniti.
Delle 10 città più inquinate della Cina, quattro sono nella provincia dello Shanxi, la più ricca di miniere di carbone; una è Datong, dove in inverno le persone sono costrette a guidare con i fari accesi anche durante il giorno, a causa della fuliggine e degli scarti industriali che inquinano l’aria.
Ma torniamo ai miniatori di casa nostra. Nel secondo dopoguerra furono 140.000 gli italiani che, insieme a migliaia di donne e bambini, partirono per il Belgio: un flusso di cui fecero parte anche i genitori dell’attuale primo ministro belga, Elio Di Rupo, partiti nel ’47 da Valentino, in Abruzzo, allo volta dei pozzi minerari valloni.
Le vittime della sciagura erano di 12 nazionalità, ma soprattutto italiani ,provenienti da 13 regioni e, soprattutto dall’Abruzzo (40 da Manoppello, in provincia di Pescara) e dal Molise.
Nel 1967 Boiz du Cazier venne chiusa definitivamente, perché l’estrazione del carbone non era più remunerativa e nonostante la celebrazioni in Belgio e in vari luoghi d’Italia, questa tragedia è molto poco conosciuta.
Tra i Paesi industrializzati, l’Italia è quello che storicamente ha dato un maggiore apporto ai flussi internazionali con quasi 30.000.000 di espatriati dall’Unità d’Italia ad oggi, dei quali 14.000.000 nel periodo 1876-1915.
Anche il decollo economico del 1896-1908, durante il quale il Pil conobbe una crescita annua del 6,7%, si mostrò insufficiente ad assorbire i contadini espulsi dalle campagne. Nel 1913 emigrarono poco meno di 900.000 italiani: si andava oltreoceano in nave e in Europa ci si spostava in treno e anche a piedi. La Sicilia, da dove nel 1876 partivano poco più di 1.000 persone, arrivò a superare le 100 mila partenze all’inizio del ‘900 ed è, attualmente, la prima regione per numero di emigrati all’estero. Nel 1861 gli italiani all’estero erano 230.000 su una popolazione di 22.182.000 residenti (incidenza dell’1%).
Solo agli inizi degli anni ’70 la tendenza del fenomeno si inverte: per la prima volta nel 1973 si registra un saldo migratorio negativo con l’estero.
Quindi al 1° gennaio 2012 i cittadini italiani iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) sono 4.208.977 (per il 47,9% donne) e incidono sulla popolazione residente in Italia nella misura del 6,9%. Gli oriundi, invece, sono stimati oltre i 60.000.000.
Inoltre, in questi ultimi anni, sempre più numerosi sono i nostri giovani si che lasciano alle loro spalle una situazione di precarietà e si recano all’estero (talvolta con ripetuti spostamenti e senza un progetto definitivo), facendo perno per lo più sulle reti familiari, quasi sempre provvisti di un’adeguata qualificazione per inserirsi nel mondo produttivo e della ricerca, quegli stessi settori che in Patria sono loro preclusi o negati.
Le mete preferite sono la Germania, il Regno Unito e la Svizzera, ma non manca chi si dirige in paesi più lontani.
Secondo recenti sondaggi (Eurispes 2012) quasi il 60% degli italiani tra i 18 e i 24 anni si dichiara disposto a intraprendere un progetto di vita all’estero.
A essere più sfiduciati delle opportunità offerte in Italia sono quelli di 25-34 anni, più le donne che gli uomini, più nel Nord e nel Centro che nel Sud e nelle Isole.
Tale percezione è diffusa anche tra i giovanissimi e la sfiducia aumenta quando il titolo di studio posseduto è più elevato. Per inquadrare in maniera completa il fenomeno della mobilità bisogna tenere conto, quindi, dei flussi tradizionali e dei nuovi flussi, stabili o pendolari, come anche dei lavoratori stagionali (59.000 solo verso la Svizzera) e delle migrazioni interne, anche queste ancora consistenti (109.000 si sono trasferiti dal Meridione nel Centro Nord).
Dal 2001 al 2010 i cittadini emigrati italiani senza alcun titolo di studio o con la sola licenza media sono scesi da 29.343 a 24.734 unità, quelli diplomati da 13.679 a 8.535 unità, mentre quelli laureati sono cresciuti da 3.879 a 6.276 unità.
Dati che debbono allarmarci per la perdita costante di giovanili risorse ed energie.
Secondo quanto emerso in una eccellente tavola rotonda di alcuni giorni fa ad Agropoli, sul tema “Sud e migrazioni”, nell’antico Palazzo Pepe, promossa e organizzato dalla Fondazione G.B. Vico, il Movimento ecologista europeo Fare Ambiente e dall’Asmef (Associazione Sviluppo Mezzogiorno Futuro), attiva nello studio dell’emigrazione italiana di ieri e di oggi con l’organizzazione della rassegna internazionale “Le Giornate dell’Emigrazione”, giunta quest’anno alla sua settima edizione; in base ad alcuni e molto recenti studi della Svimez, risultano oggi aumentate, in Italia, le migrazioni Sud-Nord, ed è anche e soprattutto, cambiata la tipologia dell’emigrato. Decenni fa partiva infatti un’intera famiglia in condizioni di vita indigente, in difficoltà finanche a sopravvivere, con la famosa “valigia di cartone”. Oggi invece va via il giovane laureato, motivato da propria autostima e da giovanile entusiasmo ma, allo stesso tempo, demotivato da chiusure di ogni tipo e negatività diffuse.
Sempre durante lo stesso convegno, lo studioso Vincenzo Pepe, ha messo in evidenza una insopportabile contraddizione, una fra le tante in questa contraddittoria Nazione che commemora Marcinelle solo come atto dovuto.
Lo Stato investe cifre enormi per formare una classe dirigente che poi passa o a sostenere le economie di altri paesi o di regioni diverse da quelle in cui è nato e si è spesso formato.
Non solo. Ma, in questi giorni in cui ricordiamo il sacrificio dei nostri a Marcinelle, occorre con forza chiedersi perché il nostro Paese scivola sempre più in basso in quanto a competitività e perché non esaltiamo le eccellenze, ma le affossiamo per far emergere il mediocre di turno.
Lo scorso 8 agosto, in contemporanea con le celebrazioni di Marcinelle, è uscito, in sordina, un grande libro: “Me ne vado ad est”, saggio di Matteo Ferrazzi e Matteo Tacconi, in cui si dice perché molti imprenditori italiani oggi vanno ad est e lasciano il Paese, come nel caso, emblematico, degli imprenditori brianzoli Fumagalli, che in soli due anni hanno rivoluzionato le logiche di un’azienda leader nel mercato come la Candy, abbracciando con energia l’ottica paneuropea, piuttosto che rimanere agganciati alla comodità del quotidiano tragitto casa-fabbrica a bordo della Panda di famiglia, in una nazione che non genera né aiuti né prospettive.
Una Nazione che, in questa area di crisi stagnante, si occupa solo (o quasi) della legge elettorale e se votare subito o dopo e quando.
Ufficialmente Mario Monti assiste distaccato al confronto tra i partiti su legge elettorale e riforme. Ufficialmente il suo orizzonte temporale è sempre il 2013. Ma il giro di colloqui con i segretari della maggioranza che parte oggi (Pierluigi Bersani alle 9,30, Angelino Alfano alle 15, Pier Ferdinando Casini giovedì alle 11,30) sarà decisivo anche per capire le reali intenzioni della ‘strana maggioranza’.
La versione ufficiale è che oggi si discuterà dei provvedimenti all’esame del Parlamento, e si affaccerà ai partiti la possibilità di varare magari già in agosto i provvedimenti legislativi frutto del lavoro di Giuliano Amato (sui finanziamenti a partiti e sindacati) e di Francesco Giavazzi (sulle agevolazioni alle imprese). Nulla che assomigli ad un nuova manovra, tengono a precisare da via XX Settembre, preoccupati per gli effetti recessivi di un nuovo intervento.
Tuttavia, al di là della versione ufficiale, nel governo c’è chi spiega che la riflessione su un voto anticipato (pare ispirata da Pier Ferdinando Casini) abbia attraversato la mente di Monti. Del resto, il programma con cui il governo si è presentato alle Camere è in dirittura d’arrivo, con la spending review e ora i rapporti Amato e Giavazzi. Insomma, evitare una campagna elettorale lunga sei mesi potrebbe essere opportuno.
Certo la cosa è importante, ma lo sarebbe ben di più discutere, fra Monti e i partiti, se sia opportuno internazionalizzare la nostra ecomomia o trovare il modo di rendere appetibile l’investimento in Italia.
In una Nazione con i cittadini (la più parte), che teme di non riuscire a dare da mangiare ,vestire, dare istruzione , creare un futuro ai propri figli, è di questo che si dovrebbe discutere, per trovare soluzioni. Senza rinvii.
Ed è invece grave che, in questa ridda di inevase domande, il Senato, riscoprendo il vecchio asse Pdl-Lega, fa passare il semipresidenzialismo e, come se il tempo si fosse fermato al giorno precedente l’insediamento del Professore, crea un pasticcio legislativo (uno in aggiunta), approvando l’articolo 12 del testo che prevede quella Commissione paritetica per le questioni regionali cui il testo approvato dalla Commissione, frutto dell’accordo tra Pdl-Pd-Udc, affidava dei compiti che, dopo l’approvazione degli emendamenti leghisti, sono già svolti dal Senato federale. Per Roberto Calderoli è sufficiente il coordinamento formale del testo a superare la contraddizione, per Francesco Rutelli e per il vicepresidente di turno dell’Aula Vannino Chitino, assolutamente no. Della questione è stato investito il presidente del Senato, Renato Schifani, che deciderà oggi prima del voto finale.
Ed intanto i morti di Marcinelle continuano ad essere ingiuriati dopo più di 50 anni.
Non c'è ancora nessun commento.