Per ricordare Vidal
(di Carlo Di Stanislao) – Considerato uno dei giganti della letteratura americana, è morto l’altro ieri, a 86 anni , nella sua casa di Hollywood Hills, con ai polsi il suo oggetto-feticco: un paio di gemelli che gli aveva regalato Paul Newman, a cui aveva rubato, molti anni prima, Joan Woodward, la prima a ricevere una stella nella famosa Walk of Fame di Hollywood, nel febbraio del 1960.
Nella sua lunga vita, con una larga fetta (30 anni), passata in Italia, prima dietro Largo Argentina e poi nella “villa più bella del mondo”, sulla costiera amalfitana, aveva scritto brutti gialli con lo pseudonimo di Edgar Box e autentici capolavori, come “La statua di sale”, che, nel 1948, aveva sconvolto e scandalizzato l’America puritana e il mondo intero, con il lirico racconto di un amore omosessuale.
E’ stato amato ed odiato, spesso assieme e dalle stesse persone, Gore Vidal, aristocratico bevitore di whisky, con verve al vetriolo come Shaw, Wilde e Caward, capace di “cadute” come nei noiosi romanzi dell’Impero americano o nel pedante “Giuliano”, ma anche di impennate verticali come il racconto “Myra Breckinridge”, pubblicato, come tutta la sua opera, da Fazi per il nostro Paese.
Proveniente dalla migliore borghesia americana, è stato un radicale convinto ed un contestatore pertinace, che ha cercato di smantellare i contenuti vacui della sua nazione e della sua classe sociale dal di dentro.
Figlio di un istruttore militare a West Point, non appena inizia, giovanissimo, la carriera letteraria, sceglie come nome il cognome del nonno materno: Thomas P. Gore, senatore democratico dello stato dell’Oklahoma e, in fondo, suo modello per la vita (come lo Keats in poesia).
Dopo la morte, nel 2005, del fedele amatissimo compagno Howard Austen, vendette la sua villa La Rondinaia a Ravello e fece ritorno a Los Angeles ed ora, come da sua volontà, è stato tumulato nel cimitero di Rock Creek a Washington D.C, in una tomba comprata anni fa, accanto al suo Howard.
Dopo “La statua di sale”, cominciò a lavorare come autore televisivo e teatrale (due sue commedie The Best Man e Visit to a Small Planet si imposero a Broadway e vennero in seguito adattate per la TV) e, nel frattempo, continuò a scrivere, dando alle stampe Il giudizio di Paride (1952) e la satira Messiah (1954).
Assunto come autore alla MGM nel 1956, tre anni più tardi era a Roma, a Cinecittà, dove William Wyler stava girando il remake di Ben-Hur, con Charlton Heston.
Accettò, insieme con lo sceneggiatore Christopher Fry, di rivedere lo screenplay originale di Karl Tunberg, a patto che la Metro Goldwin Mayer acconsentisse a rescindere il suo contratto con due anni di anticipo, così da potersi dedicare nuovamente alla narrativa.
Ed è grazie al suo apporto che si insinua, nella storia, un sospetto di appassionato innamoramento di Messala nei confronti di Ben Hur, una spina nel virilismo americano, ammantato da latente e mai confessata omosessualità, come nel cinema di Hughes, John Huston o Robert Aldrich.
Ed è al cinema che da la sua parte migliore, con partiture indimenticabili come in “Improvvisamente l’estate scorsa” (1959) di Mankiewicz, adattamento della pièce teatrale di Tennessee Williams e, l’anno prima, in “Furia selvaggia” di Arthur Pean, con Paul Newman, a cui, allora, portò via la ragazza.
Ha ragione Goffredo Fofi, è stato l’equivalente, nel secolo XX e per l’America, di quello che fu Alexis de Tocqueville, un secolo prima, per la Francia e l’Europa.
Un rivoluzionario che non credeva nella violenza né nel terrore ed affermava, sempre e comunque, come valore supremo la libertà.
Ha sempre avuto un grande interesse per la politica ed è stato sul punto di divenire governatore della California. Dopo il divorzio, la madre sposò Hugh Auchincloss, che più tardi divenne il patrigno di Jacqueline Kennedy e fu così che Gore divenne, a tempo debito, consigliere personale del presidente JfK ed anche, il suo consigliere migliore.
Ha sempre dichiarato apertamente le sue idee politiche, sia nelle sue opere che nella vita e negli ultimi tempi gran parte della sua produzione è stata dedicata alla saggistica politica, con le celebri prese di posizione contro l’amministrazione Bush sugli attacchi dell’11 settembre, che a suo avviso furono previsti dai servizi di intelligence americani.
Continuo a pensare che, se se ne vuole cogliere la grandezza, occorre leggere “Myra Breckinridge”, che, quanto uscì nel 1968, in pieno clima di contestazione, vendette 3 milioni di copie, per poi essere completamente dimenticato. In Italia lo pubblicò Bompiani (nel 1989) ed oggi (dal 2007) è pubblicato da Fazi.
l libro racconta la vicenda di Myron Breckinridge il quale, dopo un’operazione di cambiamento di sesso, diventa l’affascinante Myra. Giunto ad Hollywood si presenta alla scuola di recitazione di suo zio, fingendosi la vedova di sé stesso, per ottenere in tal modo l’eredità che gli spetta.
Il suo obiettivo, giunto nella “capitale” del cinema, è quello di distruggere il mito del “Maschio Americano”.
Scritto come un diario, il libro presenta il prototipo di una nuova genia di esseri dotati di intelligenza superiore, bellezza indiscutibile, ambizioni altissime e di una fantasia smisurata che non si contenta di vagheggiamenti e, come notato da Graziella Pulce su “Alias”, ci costringe a ragionare sui ruoli sessuali e relative lotte, sulla natura del potere, sulla funzione della letteratura, la facoltà dichiaratamente mitopoietica del cinema, ma anche sul mefistofelico binomio cultura-denaro.
E ci costringe a comprendere come si può facilmente scivolare dalla’edonismo al superomismo al fascismo e quanto davvero valgano eroi (vecchi e nuovi), come Daniele Molmenti, che dopo aver vinto l’oro olimpico con la canoa, ha semplicente detto “ho finito il lavoro”, unica cosa autentica un una Olimpiade bella ma posticcia, con tribune che sembrano comprate all’Ikea, e il “parco giochi” che resterà per allenamenti e gare, poiché i mondiali del 2015 si ripeteranno qui.
In fondo, l’avesse conosciuto, Vidal avrebbe scritto di lui, di quel ragazzone con le grandi mani callose ed il sorriso aperto, sostenuto da un solo unico segreto: sfidare quello che non sa, scendendo con la canoa tumultuosi corsi di acqua ingannatrice, con trappole nascoste e la paura da dominare nella pancia e nel petto.
Un ragazzo che per allenarsi ha dovuto vendere la sua Ducati e davanti ai giornalisti preferisce parlare d’altro, di fidanzate a iosa e poco di muscoli, mentre i suoi occhi sono altrove e ci raccontano di un viaggiatore curioso e scrupoloso, che appunta gli allenamenti, li spiega, racconta le frustrazioni e le sconfitte e ci dice che 500 dollari potrebbero essere pochi per un così grande sacrificio, ma è immenso il valore di chi si è messo alla prova.
Nel 2007 Vidal fu intervistato da Fabio Fazio nella trasmissione “Che tempo che fa” (http://www.letteratura.rai.it/articoli/gore-vidal-gli-americani-sono-ignoranti/16643/default.aspx ) e parlò del suo ultimo libro, Navigando a vista, uscito dopo più di 12 anni di silenzio.
E parlò della ignoranza come la prima nemica della umanità e di cinema, del cinema che aveva amato e scritto, come Dimenticare Palermo, in cui Francesco Rosi, dopo trent’anni da “Mani sulla città”, torna a parlare di collusioni fra criminalità organizzata e politica.
Liberamente tratto dal romanzo omonimo di Edmonde Charles-Roux, sceneggiato da Vidal con Tonino Guerra, costato 15 miliardi e girato fra New York e Palermo, con un cast internazionale in cui figurano James Belushi, Mimi Rogers, Vittorio Gassman, Joss Ackland e Philippe Noiret, contiene una “citazione” del Gattopardo di Visconti da antologia.
Il protagonista è un italo-siciliano che reca su di se tutti i segni di una appartenenza antropologicamente fatta di gelosia, amore per la famiglia e per le donne e con una vena democratica molto fragile, pronta e disposta a lasciare spazio alla Santa Madre Mafia.
Per questo sia New York che Palermo sono descritte nelle loro degradate periferie, nel pieno del loro degrado sociale, metafore di un molto più radicato ed ampio.
Nella sua prestigiosa carriera di romanziere, saggista e autore per il cinema, aveva avuto anche qualche piccola parte da attore e Federico Fellini lo volle per interpretare se stesso in ‘Roma’ e mi sono riguardato quella sezione, alla moviola, presso la Cineta de la Lanterna Magica de L’Aquila.
In quel cammeo c’è tutto il suo spirito, catturato dal grande Fellini, lo spirito di un moderno Voltaire, in grado di commentare le follie della sua nazione e dei contemporanei con spirito sagace e sferzante.
Nel 1997 comparve in “Gattaca” di Andrew Niccol, pellicola di fantascienza, con titolo ideato combinando le lettere iniziali delle quattro basi azotate che compongono il DNA, in cui si parla di un futuro prossimo venturo attraversato da lotte di classe tra chi è nato programmato geneticamente e chi, invece con un patrimonio naturale.
Ed, si dice, è grazie a lui, ai suoi suggerimenti, che il film, che nello stile degli abiti, delle acconciature, nella architettura degli edifici e delle carrozzerie delle automobili si rifà ai primi anni sessanta, con alcuni richiami al film Agente Lemmy Caution, missione Alphaville di Jean-Luc Godard, con cui condivide anche alcune tematiche sul contrasto fra sentimenti e fredda tecnologia; riesce a creare un contrasto di elementi visivi fortissimo e tale da farne un capolavoro del genere steampunk, che introduce una tecnologia anacronistica, all’interno di un’ambientazione storica, con una avvincente e non banale mescolanza di gotico, punk e rivet.
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